Miracolo! Un giardino pubblico impeccabile nel cuore di Roma. Come è potuto accadere?

28 aprile 2018





Trovare uno spazio pubblico ben curato, con gestori capaci, seri, preparati, meticolosi, nel cuore della città, con servizi ai turisti e ai cittadini e provare, allo stesso modo, rabbia. Roma è capace anche di questo. 
Ci è successo ad esempio tra il Palazzaccio e Castel Sant'Angelo, sotto la strepitosa architettura piacentiniana della Casa del Mutilato. Lì ci sono dei giardini creati tanti anni fa, in occasione del Giubileo del 2000 e firmati da Paolo Portoghesi assai più gradevoli di molti edifici realizzati dallo stesso. Ma la questione non riguarda il progetto dei giardini, bensì la loro impeccabile manutenzione. 

L'atmosfera è quasi straniante. Tutto lindo, tutto curato, tutto verde mentre a pochissimi metri (basta entrare nei giardini di Castel Sant'Angelo che in qualsiasi luogo del pianeta terra verrebbero tenuti come un salotto) c'è lo schifo romano che tutti abbiamo imparato a conoscere e molti a sopportare.

Come mai c'è questa situazione? La risposta è presto data: questo giardino non è curato dal Servizio Giardini di Roma Capitale, la pulizia non è affidata ad Ama, botanici, giardinieri e vivaisti no c'entrano nulla col Comune. Il Comune, o meglio il Municipio quando ancora in questo punto si chiamava Diciassettesimo, si è limitato a fare un avviso pubblico e ad assegnare le attività culturali (c'è un palco dove si fanno attività letterarie e culturali) e la gestione del bel chiosco bar. L'hanno spuntata degli imprenditori di eccellenza, già gestori della libreria Invito alla Lettura su Corso Vittorio Emanuele. Oggi, con l'aiuto di professionisti e seguendo loro in prima persona la manutenzione, si prendono cura di tutto questo ampio pezzo di verde dove, come si dice in questa città quando ci sono cose belle, "non sembra di stare a Roma". Il Municipio concesse la gestione economica del bar, ma in cambio chiese potatura, manutenzione e derattizzazione. E poi continuò a fare seri controlli. Tutto qui. Al bar sono anche gentili e fanno lo scontrino fiscale, due faccende molto rare a Roma purtroppo.

Perché la rabbia, dunque, visto che sembra davvero una bella storia? Semplice: perché un progetto simile potrebbe essere replicato praticamente in tutti i parchi pubblici di piccole e medie dimensioni della città. Con questo sistema potresti risolvere lo schifo dei giardini di Piazza Indipendenza così come Piazza Vittorio, potresti riqualificare Villa Aldobrandini e il Parchetto di Via Statilia, potresti recuperare finalmente Piazza Dante il Parco della Resistenza e così ad elencare decine e decine di aree (vi ricordate il nostro articolo su Piazza Cairoli di qualche giorno fa?) solo per restare al centro storico. E invece non si fa. Non si fa per burocrazia assurda, non si fa per norme allucinanti, non si fa per incapacità. Ma soprattutto non si fa per ideologia. La città è piena di persone che considerano questo aberrante, che odiano l'attività privata anche quando fa del bene in primis al pubblico. Noi siamo nati ormai 10 anni fa per cercare di scalfire questa mentalità diffusa che un tempo era un muro impenetrabile e oggi inizia a mostrare crepe e segni di ammaloramento. Lo buttiamo giù tutti assieme?

Ecco perché il nuovissimo centro commerciale Aura piace a tutti (imbecilli esclusi)

25 aprile 2018


La ridicola idiosincrasia tutta italiana (con piccole propaggini francesi) e ancor più romana contro i centri commerciali crollerebbe nei suoi patetici assunti teorici semplicemente conoscendo qualche rudimento di storia delle città: le città sono dei centri commerciali di per sé, i centri commerciali ci sono sempre stati e non esiste città senza area dedicata ai commerci e alla somministrazione di cibo. Di più: talvolta sono arrivati prima i centri commerciali, i mercati, le fiere, delle città stesse. A volte, insomma, le città sono nate proprio grazie alla presenza di un polo di commerci attorno al quale si è creata residenzialità.

Il punto, dunque, non è centri commerciali sì o centri commerciali no. Il punto è semmai fare bene i progetti dei centri commerciali e fare in modo che le operazioni abbiano un impatto positivo diffuso sull'area circostante in termini di riqualificazione degli spazi comuni, valori degli immobili, gestione della sosta. A vantaggio anche di coloro che al centro commerciale non vanno e non andranno mai.


A Roma chi è contrario ai centri commerciali (tantissimi cittadini ignari, comitati di quartiere di quart'ordine, centri sociali e immondizia intellettuale circostante) dovrebbe chiedersi come mai i centri commerciali hanno sempre un grande successo e un ottimo riscontro di pubblico indipendentemente se siano ben progettati (come Aura, appena inaugurato a Valle Aurelia, le cui foto utilizziamo per illustrare questo articolo) o mal progettati (come molti altri a Roma), indipendentemente se siano eleganti o - come sovente accade - cafoni, integrati con la città o posizionati in mezzo al nulla. 

La risposta è abbastanza semplice: i consumatori richiedono dei requisiti, quando devono fare delle compere e spendere i loro denari, che a Roma non sono soddisfatti dalle normalissime high street commerciali. Mentre tutte le high street occidentali sono corse ai ripari generando degli autentici centri commerciali naturali, a Roma questo non è avvenuto. Spesso proprio i commercianti delle high street si sono opposti alla riqualificazione delle stesse, condannandole a morte. Dall'Appia Nuova a Cola di Rienzo passando per decine di altri casi. 
Ma quali sono questi requisiti? Ce ne sono tanti ma possiamo provare ad elencarli integrandoli poi coi vostri suggerimenti: la presenza di un'area pedonale vasta, la presenza di sosta interrata per le auto, la presenza di videosorveglianza e sensazione di sicurezza diffusa, un'illuminazione ben studiata, un arredo  urbano civile, totale assenza negli spazi pubblici di elementi dequalificanti come bancarelle, ambulanti o cartelloni, efficaci servizi di security, tavolini all'aperto per mangiare, un servizio di trasporto pubblico efficiente per arrivare anche senza auto e una percorribilità pedonale in entrata ed in uscita chiara e sicura.


Tutti gli elementi che abbiamo elencato non solo non sono quasi mai presenti nelle nostre strade commerciali, ma quando qualcuno prova ad implementarli si trova di fronte alle proteste dei commercianti stessi. Purtroppo un ceto di commercianti ignoranti, rapaci, rozzi e incapaci di riflettere sulla propria stessa professione ha condannato le grandi strade commerciali al declino più irreversibile: i parcheggi interrati sono osteggiati da commercianti e residenti, tramvie, pedonalizzazioni e ciclabili tolgono spazio alla preziosissima doppiafilaeconomy, le bancarelle "fanno folklore" e dunque vanno lasciate così come i fiorai, i cartelloni abusivi e i mitici giornalai-baracca romani e così via. 

Rispetto a questa riflessione è interessante analizzare il successo clamoroso del centro commerciale AURA appena inaugurato a Valle Aurelia. Oggi, 25 aprile 2018, le persone sono qui a fare la fila (e che file!) per mangiare a KFC ed a Old Wild West non tanto per l'appeal gastronomico di queste catene (peraltro presenti in altri luoghi della città e in altre città in Italia ergo non certo delle esclusive) quanto per le risposte ai bisogni che dicevamo sopra che questo centro commerciale è riuscito a dare a soli 5 giorni dall'apertura. Il fatto che, come si vede nelle foto, in uno dei tanti spazi comuni ricavati vi siano già dei bambini che giocano a pallone la dice lunga come questo nuovo pezzo di quartiere sia diventato immediatamente un brano urbano a dispetto del terrorismo sparso a palate durante gli anni del cantiere. 
Come dimostrano alcuni imbarazzanti volantini sparsi un po' in giro nella zona, infatti, non pochi sono stati i cittadini che per motivi meramente ideologici o di bieco e bassissimo interesse personale (leggi: posti maghina gratuiti, che quando si riqualifica solitamente rischiano di diminuire) si sono scagliati contro questo progetto. Uno dei più scadenti comitati di quartiere di Roma ha qui passato anni e anni a fare esposti, stupide petizioni, diffondere pessimismo e a fare autentico terrorismo sul progetto cercando (ed è gioco facile, vista l'ignoranza diffusa) di convincere e spaventare la cittadinanza riguardo a disagi e smog. Smog? Quest'oggi, 25 aprile 2018 ribadiamolo, il centro commerciale scoppiava di gente. Come abbiamo detto i ristoranti erano gremiti e fuori ognuno aveva metri e metri di fila. Dunque? Smog? Caos? Traffico? Baldo degli Ubaldi - come hanno sempre previsto - bloccata dai tir del carico e scarico? Niente affatto: nelle strade non volava una mosca. Ovvio: la congestione e lo smog, che tanto fanno paura ai professionisti degli atroci comitati romani contro i quali ci scagliamo da anni, sono semmai dovuti ai parcheggi in superficie in fila o in doppia fila, gli stessi parcheggi gratuiti e caotici che i comitati guardaunpo' difendono (ora si scagliano anche contro la trasformazione di uno slargo in capolinea, perché vogliono che restino i parcheggi per le auto private). Ma il centro commerciale ha parcheggi interrati: si arriva, si parcheggia sottoterra e non si crea traffico, non si posteggia riducendo la carreggiata, idem per le consegne. E inoltre è servito da ben due stazioni della metro e una dei treni suburbani ergo tantissima gente arriva coi mezzi (tra l'altro l'inserimento urbanistico della stazione di Valle Aurelia è migliorato enormemente, a vantaggio di tutti i residenti anche per quelli che mai metteranno piede al centro commerciale; idem per quanto riguarda la stazione ferroviaria totalmente restaurata).

Il flop di tutta l'attività di boicottaggio fatta dai comitati di zona deve essere un esempio per il futuro. Deve aiutarci a capire quanto questi personaggi (che non stanno solo a Valle Aurelia, ma in tutta la città) siano profondamente negativi per la città, ignobilmente ideologizzati, guidati solo dalla loro stupidità se non da qualche interesse losco. Vanno ignorati, al massimo derisi, e questo deve essere profondamente compreso anche da chi amministra: non si tratta, praticamente mai, di interlocutori credibili a cui dare peso.

"Col centro commerciale cosa resterà del nostro quartiere?". Questo era il tono delle domande del Comitato Valle Aurelia. Sul loro profilo Facebook potete trovare di tutto e di più riguardo alle azioni fatte in questi anni, andate velocemente a sbirciare perché probabilmente a causa del successo del progetto presto cancelleranno tutto quanto per la vergogna. E che dire della retorica del "verde". Spesso a Roma quando qualcuno vuole fermare un progetto di sviluppo immobiliare o di trasformazione urbana parla di "verde" considerando "verde" anche gli spiazzi abbandonati, i canneti, le aree dismesse, pericolose piene di erbacce, reti da pollaio e cartelloni abusivi come era la Valle dell'Inferno prima della realizzazione delle nuove strutture, piena di immondizia, discariche abusive e baracche di sbandati. Dove oggi c'è un marciapiede  Qui sotto un prima-e-dopo. Semmai il verde è oggi più fruibile visto che questa realizzazione costituirà non solo l'unica chance possibile per il recupero della mitica Fornace Veschi oggi parte del progetto e oggetto di un intervento di restauro, ma anche l'accesso tanto atteso al parco di Monte Ciocci oggi in grave stato di degrado e che speriamo che il privato che ha investito (90milioni!) a Valle Aurelia possa contribuire a manutenere.

Da una parte scrivevano che il centro commerciale sarebbe stato un fallimento (per la verità scrivevano che la ciminiera della fornace, oggi straordinariamente restaurata, sarebbe crollata), dall'altro scrivevano che avrebbe avuto così tanto successo da far aumentare i prezzi delle case e espellere i residenti storici non in grado di pagare i nuovi affitti. Una lettura che fa solamente sorridere. Oltre che pena. Ma loro hanno insistito per anni urlando al "mostro di cemento". Guardate in queste foto che mostruosità. In un quartiere inguardabile e architettonicamente raccapricciante, è forse l'unica architettura che dà una dignità e una identità civile paradossalmente. 


Interessante sottolineare come ci si trovi qui di fronte ad un caso di continuità amministrativa, come avviene in tutte le città serie. Il progetto venne immaginato molti anni fa, ma tutto partì ai tempi di Alemanno. Marino cosa fece? Fece come fanno gli attuali amministratori e buttò via tutto il lavoro fatto da chi c'era prima (vedi Stadio della Roma, Ex Fiera, Ex Torri dell'Eur...) oppure diede continuità? Ovviamente la scelta di Giovanni Caudo, allora assessore all'urbanistica e oggi candidato alle primarie per il III Municipio (ci raccomandiamo!!!) fu diversa. 


L'amministrazione infatti si adoperò per mandare avanti il progetto con velocità, si spese con i comitati (gli imbecilli di cui sopra), si interfacciò con i nuovi proprietari che nel frattempo cambiarono e diede loro la sicurezza e reimpostò la convenzione. E così, proprio durante la giunta Marino, Caudo fece partire i cantieri nel dicembre del 2015. Al loro arrivo poi i grillini provarono anche qui a far saltare tutto, ma era davvero troppo tardi e almeno qui non riuscirono. 
Bugie e terrorismo. Lo stile del Comitato di Valle Aurelia è lo stesso stile di cento altri comitati a Roma. Il problema non sono loro (di scemi è pieno il mondo non solo a Roma), il problema è che hanno influenza e vengono ascoltati dalla politica

Noi, giusto per dire che non ce ne usciamo oggi belli belli solo perché il progetto sta avendo un oggettivo successone, avevamo parlato di questa iniziativa tante volte. La prima volta addirittura sei anni fa, poi la seconda e ancora la terza (e no, cari comitati, i "palazzinari" non ci hanno "pagato" per questo. Purtroppo, aggiungiamo noi). Articoli solitamente seguiti a risposte raggelanti da parte del Comitato di cui sopra. 
Quando ci sarà qualche altra nuova iniziativa potete decidere se dar retta a chi come noi cerca di ragionare e vuole portare gli standard di questa città vicini agli standard occidentali o a chi cerca di sfruttare la vostra ignoranza per terrorizzarvi e per convincervi che una iniziativa che crea posti di lavoro, qualità urbana e investimenti è peggio di un campo nomadi e di uno spiazzo abbandonato preda di incendi e coperto di discariche abusive.

Porto Fluviale. Nasce un nuovissimo edificio ma tutt'intorno lo schifo più assoluto

24 aprile 2018





In tutte le città del mondo quando c'è qualche novità urbanistica e architettonica (palazzi vecchi che vengono sostituiti da palazzi nuovi, zone abbandonate che vengono edificate con nuove architetture di qualità, nuove infrastrutture ecc...) i cittadini sono felici. Non pare loro vero per un semplice fatto: la zona si riempirà di ulteriori servizi e sarà riqualificata senza che a loro venga chiesto nulla in cambio. Nessun esborso, nessun aumento di tasse o condominio. 

E' il meccanismo degli oneri di urbanizzazione: io Comune ti faccio a te, imprenditore, sviluppare un lotto di terreno (magari concedendoti dei cambi di destinazione, ad esempio modificare in residenziale, commerciale o uffici un edificio che secondo il vecchio Piano Regolatore doveva essere industriale) e tu, imprenditore, oltre a fare i lavori come dico io, a creare nuova occupazione e a migliorare l'area, sei obbligato ad investire dei soldi per migliorare il circondario, rifare i marciapiedi, realizzare una pista ciclabile, curare il verde a tuo spese, interrare i cassonetti o contribuire ad una raccolta porta a porta, incrementare l'illuminazione, riqualificare una stazione ferroviaria e quant'altro.

A Roma questo non accade. A Roma l'imprenditore lavora esclusivamente di rapina: sia perché ha un approccio speculativo, sia perché nessuno dall'altra parte lo spinge e lo obbliga a lavorare bene. Quando questo accade (vedi il progetto di Tor di Valle\Stadio della Roma) salta il banco, il sistema si chiude in se stesso, annusa il rischio (se si va verso la normalità, gli im-prenditori che oggi sguazzano a Roma dovrebbero o cambiare atteggiamento o fallire) e rovescia il tavolo. Il vecchio progetto dello Stadio della Roma prevedeva che il 30/35% di soldi investiti andasse su opere pubbliche, l'attuale progetto non arriva al 10%. Un progetto di stampo occidentale evoluto è stato trasformato in speculazione alla romana.

Ecco perché a Roma i cittadini - gli unici cittadini occidentali - odiano le nuove architetture, odiano i cantieri di trasformazione urbana, detestano i nuovi edifici. Semplicemente perché non ne vedono il vantaggio. Succede nei progetti da miliardi di investimento, ma anche nei development più piccoli.

Prendi ad esempio il grande progetto residenziale ultimato a Via del Porto Fluviale laddove un tempo c'era il Consorzio Agrario. Doveva qui nascere una cittadella in laterizio progettata dall'architetto Carmassi, dopo anni di palude dovettero rifiutare a favore di una costruzione realizzata dall'architetto romano Moauro, uno studio che ha molti meno problemi con la burocrazia a Roma. L'edificio è esteticamente imbarazzante, ma non vogliamo parlarne in termini estetici anche perché, pur essendo a nostro parere non accettabile, è comunque uno degli sviluppi più interessanti realizzati negli ultimi mesi in città. Siamo così paradossalmente fermi e immobili che anche questo arnese è una novità significativa, forse la novità più significativa del 2017 pensate un po'...

Ma, come dicevamo, non volevamo parlare di questo bensì dei benefici che questo grande sviluppo immobiliare ha fatto atterrare sul territorio. Come sono stati spesi gli oneri di urbanizzazione? E' migliorato il territorio? Il quartiere ha avuto benefici tangibili dopo anni di cantieri, polveri, disagi, camion e rumori? 
Zero. Lo zero più assoluto: la strada è rimasta come prima, niente ciclabile, niente eliminazione della sosta (qui per gran parte della giornata gestita da feroci parcheggiatori abusivi), niente riqualificazione dei marciapiedi, le rive del fiume sono sporche, piene di carcasse di animali e da una parte c'è un vero paese abusivo di baracche e casupole: un autentico slum sudamericano. Il palazzo con le nuove case che nuovi cittadini dovrebbero comprarsi,  affaccia su bidonville di secchi della spazzatura strabordanti e puzzolenti, la pedonalità lungo il Ponte di Ferro è pericolosissima e anche lì nulla è cambiato, il verde dentro l'area privata è ben manutenuto ma appena esci fuori l'unica aiuola lungo al marciapiede è totalmente incolta da far paura. Il resto (affissioni abusive, sporcizia, sosta selvaggia, materiali scadenti...) lo potete facilmente evincere da queste foto. 

Roma è e resta l'unica città del mondo dove sviluppi immobiliari, cantieri edilizi e trasformazioni urbane non portano alcun impatto positivo sul territorio. Non si sa bene se per colpa del controllore pubblico, del controllato privato o di un mix dei due. E succede dovunque in città (pensate alla Città del Sole al Tiburtino, bellissimo progetto architettonico che dopo la sua edificazione continua ad essere collocato in un'area dal degrado inimmaginabile). E tutto sembra perfettamente normale. E magari gli appartamenti (con affaccio su una autentica favela) vengono anche venduti a prezzi che ti farebbero comprare un attico in centro a Milano, un appartamento borghese a Parigi e un palazzetto a Berlino. Perché ai romani va bene così: non esistono ambizioni di migliorare, non esiste voglia di vivere, solo spirito di sopravvivenza e intenzione ripetuta a non porsi il problema.

L'incredibile video da Piazza Cairoli trasformata in discarica. Orrore a Via Arenula

21 aprile 2018
Davvero raccapriccianti queste immagini girate lo scorso mercoledì sera all'ora di cena in una delle piazze più centrali della città. Raccapriccianti ma anche ormai per certi versi normali. Per primi i romano stanno facendo il callo a questo stato di cose e - da come hanno sempre dimostrato di fare - sembrano perfettamente in grado di accettare di buon grado il declino profondo della loro città. Quando si cerca di fare qualcosa di nuovo e civile insorgono tutti, ma quando la situazione precipita non si allarma nessuno.

Ma oltre a guardare con attenzione alle condizioni di questa piazza, dobbiamo cercare di approfondire il motivo per cui si è arrivati a questo. Un motivo, ancora una volta, emblematico e che ci aiuta a raccontare il perché di uno stato di cose che non ha eguali in nessuna città italiana ed europea. Uno stato di cose fatto insieme di ideologia, sciatteria, stupidità a palate e totale incapacità amministrativa e mancanza della seppur minima visione.


Questa piazza era stata ripulita grazie ad un accordo tra il Primo Municipio (la piazza è di competenza comunale, ma il Municipio si era preso diciamo la briga) e il Ministero della Giustizia (che tra l'altro ha sede a pochi passi). A manutenerla ci pensavano dei detenuti ed effettivamente la situazione era diventata più che dignitosa. Arrivati al governo della città gli honesti che ben conosciamo hanno imposto la fine della convenzione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.


Colpa della Raggi e della ghenga di personaggi inqualificabili che la circondano? Certo. Ma il Primo Municipio non ne può uscire da eroe. L'accordo che era stato concluso era efficace ma non strutturale, si prestava infatti (come è successo) a venire smontato dal primo amministratore cialtronesco che sarebbe subentrato. Come abbiamo spiegato mille volte su queste pagine per rendere strutturale la manutenzione "conto terzi" delle aree verdi bisogna trasformare le arre verdi in una scommessa anche economica, con operatori che abbiano tutto l'interesse a tenere le aree pulite e manutenute. Funziona in tutto il mondo e nei pochi casi in cui la cosa è applicata a Roma funziona anche a Roma. Si tratta di scalarla su tutta la città in maniera diffusa. Non c'è altro modo per ripristinare la dignità. Tra l'altro sarebbe un processo virtuoso perché volto a dare maggiori servizi ai turisti e incrementare i posti di lavoro. Un approccio che è la norma in tutto il mondo ma che è guardato male a Roma. Con le conseguenze che questo video racconta: è meglio continuare ad alimentare le nostre stupide ideologie anti mercato, anti sviluppo e anti privati e vivere sommersi nella monnezza? O cambiamo mentalità il prima possibile isolando i tanti che per loro interesse alimentano queste sciocchezze e queste paure, o andrà sempre peggio.

L'agonia di Atac e il colpo di grazia della Giunta Raggi spiegati alla perfezione. Un saggio da leggere

18 aprile 2018
Non potevamo esimerci dal ripubblicare il lungo saggio che Walter Tocci (ultimo assessore alla mobilità di Roma degno di questo nome) ha scritto per spiegare la attuale tragicomica e drammatica situazione di Atac. Uno scritto che non risparmia nessuno, che delinea la filiera delle responsabilità, che spiega con dovizia sia le colpe del passato sia le enormi colpe dell'attuale amministrazione fautrice, su un corpaccione moribondo, di un autentico colpo di grazia congegnato con un unico obbiettivo: allisciare il pelo di clientele, pessimi sindacati e bacini di voti. Uno squallore che è sempre stato della politica, ma questa politica che si racconta come nuova e onesta è in realtà molto peggio di chi l'ha preceduta. 
Nella speranza di una soluzione onorevole (noi ci auguriamo che il servizio venga messo a regolare bando, come vuole la legge oltre che il buon senso, e che la gestione venga rilevata da Atm: una integrazione tariffaria, grafica, operativa sull'asse Milano-Roma sarebbe di grande sinergia e utilità) vi invitiamo con forza a leggere questo documento. Molto lungo, ma molto utile. 

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La crisi dell'Atac, le scelte sbagliate e le soluzioni possibili

di Walter Tocci




Abstract


La crisi dell'Atac è il principale problema del governo di Roma. Non è più tempo di pannicelli caldi, occorre una soluzione di sistema: nel tempo, uscendo dall'emergenza con una strategia di medio termine; nei contenuti, curando i mali aziendali nel contesto della politica integrata della mobilità.

Le cause strutturali del malfunzionamento e le possibili soluzioni si possono riassumere in tre questioni:

a) L'inefficienza della gestione crea debito e produce un livello insufficiente di trasporto. In seguito alle maldestre scelte della giunta Raggi l'azienda è stata gettata in una procedura fallimentare ad alto rischio per la città e per i lavoratori. Si poteva evitare - ed è ancora possibile - decidendo di separare il debito dal servizio, che è l'unico modo per risolvere entrambi: il primo con un'operazione finanziaria comunale a lungo termine e il secondo aprendo alla concorrenza per aumentare l'efficienza. Il ricorso a gare europee è una scelta utile per i cittadini e quasi obbligata dalle leggi. In una città normale non ci sarebbe neppure bisogno di un referendum, invece esso è necessario per rimuovere la decisione della sindaca di conservare l'attuale monopolio. È però dirimente come si effettuano le gare: con la privatizzazione si rischia di cadere dalla padella nella brace passando da un monopolio pubblico a uno privato. Occorre invece una liberalizzazione che affidi ai privati solo la produzione mantenendo saldamente in mano pubblica i caratteri pubblici del servizio, in particolare le linee, le frequenze e le tariffe.

b) La rete degli autobus è molto estesa ma poco efficace. Per inseguire la disordinata espansione urbanistica si sono aggiunti e prolungati tanti collegamenti a domanda debole e a bassa densità. Questa struttura diradata comporta costi di gestione elevatissimi e standard di servizio insufficienti. Occorre un ridisegno radicale basato sulla specializzazione delle linee: Express, a orario predefinito, con integrazione al ferro ecc. Nel territorio a bassa densità bisogna utilizzare le nuove tecnologie per offrire servizi a chiamata su itinerari flessibili con mezzi di trasporto più piccoli. La riforma della rete deve essere sostenuta da coraggiose politiche della mobilità, non solo le corsie preferenziali ma intere strade verdi dedicate esclusivamente ai mezzi pubblici.

c) Il deficit di infrastrutture accumulato nel Novecento comporta una scarsa dotazione di trasporto su ferro e un eccessivo ricorso alla modalità dell'autobus. Da tanto tempo si è impostata la soluzione della cura del ferro come integrazione tra diverse modalità di trasporto: la ristrutturazione e il potenziamento delle ferrovie regionali; la realizzazione di due nuove metropolitane C e D; il rilancio del tram in centro e in periferia. Questa strategia è stata spesso dimenticata o distorta. La nuova amministrazione ne ha ripreso gli obiettivi tranviari con meritevoli intenzioni, ma anche facili dimenticanze e alcuni progetti sbagliati, come si vedrà nell'ultima parte del libretto.
A differenza di altre città, nel trasporto romano le tre cause strutturali si presentano con la massima intensità e interagiscono tra di loro. Per questo motivo in Italia nessun altro bacino di trasporto pubblico è così tanto costoso e sgradito ai cittadini. Dovrebbe essere un motivo sufficiente per realizzare una coraggiosa e lungimirante politica della mobilità.



LE AVVENTURE DELLA GIUNTA RAGGI

La crisi dell’Atac viene da lontano e si è aggravata negli ultimi anni. All’emergenza la giunta Raggi ha risposto con provvedimenti sbagliati che rischiano di peggiorare il servizio già molto scadente, di mettere in pericolo la condizione di decine di migliaia di lavoratori compreso l'indotto e di perdere il controllo del bilancio comunale.
Esaminiamo le due delibere approvate a gennaio dal Consiglio Comunale: la proroga del monopolio Atac oltre la scadenza prevista del dicembre 2019; l'autorizzazione a ricorrere alla procedura fallimentare nella modalità del concordato preventivo con i creditori.

1. Con la proroga si conserva il monopolio che è la principale causa della crisi: l'azienda da diversi anni non è in grado di produrre la quantità di trasporto che il Comune richiede e finanzia tramite il contratto di servizio. Il livello della produzione su gomma nel 2017, come indica il piano industriale, è stato di circa 84 milioni di km, un dato peggiore di quello del 2016 e ben al di sotto dei 101 milioni previsti dal contratto vigente, e ancora peggio rispetto ai 120 milioni di Km prodotti nel 2000.

Il livello di offerta è oggi al minimo storico. Questi numeri danno la misura del disagio quotidiano avvertito dagli utenti, seppure in modi differenziati sul territorio. La riduzione media di circa il 30% non è applicata alle linee centrali già sature e viene scaricata sulle linee periferiche, fino a raggiungere tagli superiori al 50%; addirittura di alcune linee è rimasta solo la palina a testimoniare che una volta passava anche l'autobus.
Il piano industriale approvato dalle delibere comunali prevede che nei prossimi anni l'offerta di trasporto aumenterà lievemente ma rimarrà comunque al di sotto del livello previsto dal contratto di servizio. Solo nel 2021, alla fine della proroga della gestione in house, raggiungerà l'obiettivo di 101 milioni. È un paradosso amministrativo: con l'approvazione del piano industriale l'Atac viene autorizzata a non rispettare il contratto di servizio che pure ha stipulato con il Comune. La giunta Raggi certifica che durante il suo mandato il servizio rimarrà insufficiente rispetto alle previsioni.

Se il bilancio comunale prevede di finanziare più trasporto ma l'azienda non riesce a produrlo, la giunta dovrebbe affidare mediante gare ad altri gestori almeno la quota di servizio non soddisfatta dall'Atac (101-80=20 milioni di Km). La concorrenza, quindi, si rende necessaria non solo in base alle leggi nazionali ma anche per la semplice constatazione che l'azienda non riesce a produrre quanto richiesto dallo stesso Comune. Invece, si prolunga il monopolio pur sapendo che non è in grado di rispettare gli impegni verso la città. Ciò procura un danno evidente agli utenti e meno visibile alla stessa azienda. Nel suo bilancio, infatti, in base al contratto stipulato con il Comune è scritto in entrata il corrispettivo previsto, che però viene decurtato a causa del minore servizio erogato, determinando una perdita. La crisi di bilancio dell'Atac dipende dall’incapacità di produrre la necessaria quantità di trasporto. Le ragioni sono da ricercare innanzitutto nell'inefficiente organizzazione del lavoro e nella carenza degli investimenti. Ma al di là delle spiegazioni settoriali, la sottoproduzione è il risultato di una deriva autoreferenziale che induce l'azienda a rispondere agli interessi interni prima che alle esigenze del servizio.
Riassumendo, il monopolio è una prigione che impedisce alla città di ottenere più servizio e allo stesso tempo indebita l'azienda. La delibera di proroga, quindi, produce solo effetti negativi per i cittadini.

2. Il concordato preventivo è una procedura fallimentare che consente di gestire, sotto il controllo del Tribunale, il contenzioso con i creditori, assicurando la continuità del servizio. L'esito però non è scontato, e in caso negativo porterebbe al fallimento ordinario che sarebbe affidato a un commissario al fine di liquidare l'azienda, con esiti imprevedibili per il servizio pubblico. L'insuccesso del concordato può venire da cause amministrative oppure economiche.

La fragilità amministrativa dipende dalle incongruenze formali e sostanziali di entrambe le delibere. Sulla proroga del monopolio c'è un parere negativo dell'Autorità per la concorrenza perché il Comune non può dimostrare, come richiederebbe la legge, che il ricorso all'in house è più efficiente delle gare. Inoltre, la delibera di approvazione del piano industriale che accompagna il concordato contiene diversi profili di rischio e di illegittimità espressamente richiamati nei pareri del Ragioniere e del Segretario del Comune allegati alle delibere di Giunta (n. 1 e 4 del 3-4 gennaio 2018). Nella mia lunga esperienza capitolina mai mi era capitato di leggere pareri così dettagliati e severi da parte dei massimi responsabili del controllo interno. Tra l'altro si spingono a dichiarare che non sono stati messi in grado di svolgere un'adeguata istruttoria degli atti portati all'esame della giunta. Con questi pareri le delibere resisterebbero difficilmente al contenzioso che un soggetto interessato eventualmente volesse attivare. Anche il Tribunale fallimentare, in via istruttoria con il decreto del 21 marzo 2018, ha evidenziato alcune illegittimità che dovranno essere chiarite dal Comune per ottenere l’approvazione del concordato.

La fragilità economica è indicata già nel nome della procedura che si chiama "concordato" perché è mirata a ottenere il consenso della maggioranza dei creditori, i quali si esprimeranno in apposite assemblee nei prossimi mesi. Se non approveranno la proposta il processo scivolerà verso il fallimento ordinario con la conseguente liquidazione dell'azienda. L'accettazione o il rifiuto dipendono quindi da quanta parte del credito viene riconosciuta. La proposta non sembra entusiasmante: i creditori riceverebbero solo il 31% del dovuto entro il 2021, poi otterrebbero con quantità e tempi incerti ulteriori ristori : il 30% entro il 2022 e il saldo finale del 39% dopo il 2027 senza una precisa scadenza. L'incertezza dipende dal fatto che queste ultime rate verranno erogate nella forma di due prodotti finanziari connessi alla partecipazione al 30% di eventuali futuri utili. Che l'Atac non vada più in rosso e cominci a produrre profitti è una previsione molto coraggiosa. E per certi versi anche negativa, perché gli eventuali utili dovrebbero essere prima di tutto investiti per potenziare il trasporto, almeno fino a livello previsto dal contratto di servizio.
Il successo della procedura, quindi, non è assicurato, ma supponiamo che l'esito sia positivo. In sostanza il concordato ha l'obiettivo di superare la crisi operando all'interno sulla produttività del lavoro e all'esterno sul sacrificio economico a carico dei fornitori. A giudizio del Ragioniere il risanamento interno è debole e tutto il processo è fondato solo sulle ricadute esterne. La critica - ripresa poi anche dal Tribunale fallimentare - è molto dura e meriterebbe una presa di posizione della giunta che invece si limita a certificare un dissidio esplicito tra gli alti dirigenti comunali e gli organi aziendali.

Senza una smentita della tesi del Ragioniere, rimane legittimo il dubbio che il concordato sia utilizzato dal corporativismo aziendale per conservare se stesso e far pagare il conto solo ai fornitori. Tra questi reggeranno agevolmente l’abbattimento del credito coloro che hanno ottenuto prezzi elevati su commesse non concorrenziali, come è accaduto nei casi segnalati dagli analisti e dai media. Al contrario, i fornitori efficienti che hanno vinto le gare con prezzi congrui, se otterranno solo il 31% della liquidità spettante, subiranno un colpo tanto grave da mettere a rischio l’attività imprenditoriale. In Campidoglio nessuno si preoccupa degli effetti devastanti sul tessuto produttivo di un'operazione che salva le imprese assistite e penalizza quelle più competitive.

In ogni caso, l'abbattimento dei vecchi crediti renderà più difficile l'approvvigionamento delle nuove forniture, come sottolinea anche il Tribunale in particolare per l'acquisto degli autobus. Le imprese che hanno subito un danno saranno più esigenti nel chiedere pagamenti immediati, e molte altre eviteranno di partecipare alle gare bandite dall'Atac oppure interromperanno i lavori in corso, come si è già visto nelle opere di ristrutturazione delle ferrovie di Ostia e di Roma Nord. Tutto ciò rischia di accentuare la mancanza di ricambi e la penuria di investimenti, cioè proprio i principali motivi di sofferenza della produzione degli anni passati. Il concordato non solo non risolve, ma asseconda le dinamiche della crisi aziendale.
Infine, le due delibere che dovrebbero risanare l'azienda in realtà peggiorano le sofferenze di bilancio. La proroga del monopolio è sanzionata dalla legge (articolo 27, c. 2, lettera d del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017) con una riduzione del finanziamento regionale pari al 15% del costo del contratto di servizio. Ciò comporta a regime un taglio di circa 100 milioni che verrà applicato gradualmente a partire da 20 milioni nel 2020.

Ancora più penosa è la vicenda dell’integrazione tariffaria Metrebus, nella quale l'Atac ha gestito la cassa senza versare al Cotral e a Trenitalia le quote spettanti rispettivamente di circa 70 e 30 milioni. Nel concordato queste somme sono trattate come crediti di normali fornitori, mentre invece derivano dal mancato riparto di risorse tra i gestori pubblici del trasporto. Il tentativo di abbattere questi debiti di Metrebus è destinato a fallire. Il Cotral otterrà infatti il rimborso dalla Regione, che a compensazione taglierà ad Atac una pari somma nella voce di finanziamento della gestione delle ferrovie concesse. Anche Trenitalia attiverà un contenzioso per ottenere la sua parte degli introiti tariffari. È prevedibile che circa 100 milioni saranno sottratti alla procedura del concordato e riportati sul debito corrente dell'Atac.

L'equilibrio economico della proposta di concordato si regge sull'ipotesi di vendere i depositi non più funzionali all'esercizio, secondo un'impostazione duramente criticata dal Tribunale. Una delibera comunale del 2011 aveva già autorizzato la vendita ma l'azienda e il Comune non sono stati in grado di portarla a termine. Ora viene di nuovo autorizzata l’alienazione, che potrà essere effettuata anche prima della variante urbanistica. Un deposito di autobus vale ben poco sul mercato, ma può moltiplicare diverse volte il suo valore se diventa un edificio ad uso residenziale o terziario. Ciò significa che il patrimonio verrà svenduto, perdendo la valorizzazione immobiliare che sarà invece incamerata dall'acquirente. La destinazione d'uso sarà oggetto di una trattativa con il proprietario privato nella quale spesso il Comune si rivela incapace di assicurare la qualità urbanistica e sociale dell'operazione.

Quando si alienano immobili per ripianare i debiti di un'azienda si rischia di favorire la rendita immobiliare creando un altro debito in termini di infrastrutture che risultano sottodimensionate rispetto alle necessità del quartiere coinvolto nella trasformazione. Ad esempio, il nuovo stadio, al di là delle favole raccontate ai tifosi, serve a ripianare i vecchi debiti accumulati dai costruttori verso le banche e verrà realizzato con un forte deficit infrastrutturale, tanto è vero che si è ventilato l'intervento dello Stato per finanziare la realizzazione del nuovo ponte sul Tevere.

Infine, la gestione del concordato ha un costo elevato per le perizie, gli avvocati, i commercialisti, i commissari. Si produrrà una camionata di carte spendendo circa 13 milioni, che potrebbero essere investiti invece nell'acquisto di una cinquantina di autobus, con effetti sicuramente benefici sul trasporto cittadino. Ora la sindaca Raggi si accorge dell’onere delle consulenze, ma era tutto scritto nella delibera di giunta sul concordato. Viene il dubbio che l’abbia approvata senza neppure leggerla.



SI POTEVA EVITARE IL FALLIMENTO DELL'ATAC


I danni e rischi sarebbero stati evitati se non si fosse attivata la procedura del concordato. È stata presentata come una scelta obbligata, ma non è vero. L'Atac è stata gettata nella situazione fallimentare proprio dal Comune. Infatti, la decisione del Ragioniere di non riconoscere un debito comunale di circa 200 milioni ha creato una voragine nel bilancio dell'Atac, portando il capitale sociale sotto la soglia che rende obbligatoria la procedura fallimentare. La giunta ha accettato supinamente l’interpretazione del Ragioniere, nonostante una precedente delibera della giunta Marino (D.G. n. 323 del 2014) avesse già riconosciuto le ragioni all’Atac. Il debito si riferisce a oneri dei contratti nazionali che sulla base di alcune sentenze del Tribunale civile sono da attribuire al Comune. Una parte del debito è riferita anche ad accordi locali sottoscritti direttamente dalla giunta Alemanno senza il coinvolgimento dell'azienda: una procedura inaudita che dice tutto sulla devastazione delle regole di separazione tra indirizzo politico e autonomia gestionale, tra compiti comunali e funzioni aziendali.

L'Amministratore delegato ha contestato il provvedimento di cancellazione del debito e coerentemente ha attivato un contenzioso in tribunale proprio contro il Comune, che pure è impegnato a salvare l'azienda. Questa contraddizione è duramente stigmatizzata nel parere del Ragioniere, anch'egli in piena coerenza con il suo ruolo. Di fronte allo scontro in atto tra i massimi dirigenti aziendali e comunali la giunta non ha preso posizione e tanto meno ha sentito il bisogno di trovare una mediazione. Il non governo dei processi rischia di portare agli esiti più negativi. Sarà infatti la magistratura a risolvere anche questa partita: se darà ragione all'Atac verranno a cadere le condizioni obbligatorie del fallimento e il debito di 200 milioni tornerà in capo al Comune.
Se invece il tribunale respingerà l'istanza dell'Amministratore delegato la procedura del concordato rimarrà confermata, ma si determinerà un danno non minore nel bilancio comunale. Infatti, questo prevede anche di incassare da Atac una somma di circa 500 milioni per una serie di anticipazioni dei fondi regionali effettuate dalla Ragioneria comunale e non restituite. È un caso emblematico del grave disordine contabile tra controllante e controllato.

La procedura del concordato stabilisce che i crediti dell'azionista si possano soddisfare solo dopo aver saldato quelli dei fornitori. Nella delibera si posticipa il rimborso al Comune con rate poliennali a cominciare dal 2022, ma in quel periodo, come si è visto, dovrebbe essere ancora in corso il saldo ai creditori, per la quota residua del 39%, mediante il secondo prodotto finanziario. Entrambi i rimborsi andrebbero ad attingere contemporaneamente al 30% degli utili in proporzione all'ammontare dei crediti. Il Tribunale ritiene illegittima questa sovrapposizione e quindi l'Atac dovrà riformulare il progetto del concordato spostando a valle della completa soddisfazione dei creditori privati il credito così detto "postergato" del Comune. Non si può quindi definire con precisione la data della prima rata di rimborso, comunque verso la fine degli anni venti, quando i creditori avranno riscosso il secondo prodotto finanziario. Occorre ricordare che una precedente delibera della giunta Raggi, n. 53 del 12 ottobre 2016, aveva già approvato un accordo con l'azienda per attivare il rimborso della somma in venti anni a partire dal 2019. Questa delibera è stata annullata il 28 agosto del 2017, dopo l'annuncio del concordato. Il Comune si è fatto del male da solo: nella nuova impostazione il suo credito verrà rimborsato non si sa bene quando, ma probabilmente dieci anni dopo la data che era stata prevista.

Si determina, però, un paradosso: il rimborso del credito è previsto dopo la scadenza della proroga dell'in-house, cioè quando l'azienda non sarà più titolare della concessione. Il Segretario e il Ragioniere esprimono la preoccupazione di prorogare un grande credito a un soggetto che potrebbe non esistere più alla scadenza prevista. Alternativamente, nel 2021, quando terminerà la proroga, potrebbe venire la tentazione di prolungare ulteriormente la gestione in house per tenere in vita l'azienda che deve restituire i 500 milioni. Il Comune potrebbe trovarsi in un'alternativa comunque dannosa: o perde il credito o blinda il monopolio. In ogni caso, il rinvio del rimborso di un credito di questa portata produce ulteriori sofferenze nella gestione corrente delle risorse comunali.
Inoltre, la proroga del monopolio espone il Comune verso i fornitori dell'Atac. La figura giuridica dell'in house - come è evidente dal nome - configura l'azienda come una diretta dipendenza dell'Amministrazione, al pari degli altri dipartimenti comunali. In base a questa interpretazione la magistratura civile e quella amministrativa potrebbero riconoscere ai creditori qualche diritto a rivalersi direttamente sul Campidoglio. C'è già stata infatti l'attivazione di tale istanza da parte di uno dei principali fornitori, quello della vigilanza degli impianti, e potrebbe essere solo l'inizio di una serie.

Il concordato diffonde gli effetti negativi sulle altre aziende capitoline che vantano crediti nei confronti di Atac. L'Acea e l'Ama perdono una somma di circa 50 milioni che potrebbe ricadere sul Comune in quanto azionista. Anche questo rischio è evidenziato dal parere del Ragioniere.
In conclusione, il concordato produce rischi gravi per l'azienda e un danno sicuro per il Comune. Invece di ratificare gli eventi la giunta doveva elaborare un'idea autonoma di come governare il processo. Doveva evitare il fallimento respingendo la proposta del Ragioniere di scaricare sull'Atac il debito di 200 milioni, facendo riferimento alla deliberazione precedente che ne riconosceva la validità. Curiosamente non ha avuto la forza di mettere in discussione una decisione sbagliata del dirigente contabile, ma poi ha ignorato il suo parere e quello del Segretario generale, entrambi fortemente negativi sulla delibera del concordato. Emerge un'evidente contraddizione dell'organo politico, poiché asseconda gli errori e rifiuta i pareri della burocrazia.



SEPARARE IL DEBITO DAL SERVIZIO


Tutti i problemi soprarichiamati non derivano dal concordato in sé - che anzi è un'ottima procedura di governo delle crisi aziendali - ma dall'illusoria ipotesi che ne sorregge l'applicazione al caso specifico. Si immagina che l'Atac sia capace di non produrre più debito, anzi di creare un utile sufficiente a ripagare i crediti. Non solo è uno scenario poco credibile, ma è anche doppiamente dannoso: in primo luogo, perché il management sotto la stretta dei commissari nominati dal Tribunale sarà tentato di raggiungere gli obiettivi finanziari riducendo le risorse disponibili per il servizio di trasporto. Già negli anni passati la crisi finanziaria ha comportato l'abbattimento degli investimenti e ha determinato una forte riduzione dell'offerta, come sanno per esperienza diretta i cittadini romani; in secondo luogo, l'eventuale attivo che dovesse emergere dall'applicazione del piano industriale, verrebbe sequestrato dal ripiano dei crediti, mentre dovrebbe essere finalizzato a migliorare il servizio che si trova oggi al minimo storico.

In ogni caso è sbagliato il presupposto fondamentale dell'operazione: gestire il debito in azienda non solo non è risolutivo, ma frena la produzione industriale, complica il rapporto con i fornitori, riduce gli investimenti, degrada l’offerta e quindi rischia di determinare nuove perdite. Non sono previsioni pessimistiche, è solo la constatazione di un circuito vizioso in atto da un decennio: il debito impedisce di produrre l'offerta stabilita dal contratto di servizio stipulato con il Comune, il quale di conseguenza ha dovuto ridurre l'erogazione del finanziamento, aggravando così la crisi finanziaria.
In linea teorica il debito non dovrebbe proprio esistere in un'azienda titolare di un contratto di servizio, perché il corrispettivo più gli introiti delle tariffe dovrebbero coprire interamente i costi di produzione relativi al volume di offerta. Lo sbilanciamento è stato quindi determinato da una cattiva gestione del contratto da parte di entrambi i soggetti: l'azienda non produceva la quantità prevista; il corrispettivo non era adeguato oppure era definito in modo ambiguo e tale da generare contenziosi. Con il contratto di servizio stipulato nel 2015 si è compiuto un passo avanti nella chiarezza degli obiettivi da raggiungere e delle risorse disponibili. Si può fare ancora meglio per evitare che si ricreino nuovi debiti quando l'azienda sarà liberata dal peso del passato.

A tal fine l'unica soluzione possibile consiste nel separare il debito dal servizio. Solo slegando i due problemi si può risolverli alla radice. Il primo va affrontato riconoscendo che ormai le perdite non sono più solo dell'azienda ma riguardano il Comune di Roma come azionista unico. Il secondo ha bisogno di migliorare l'efficacia e l'efficienza mediante la liberalizzazione della produzione, come vedremo nei prossimi paragrafi.
Già negli anni passati si doveva decidere di assumere il debito a livello comunale per prevenire la crisi. Il Comune doveva riconoscere la partita negativa dei 200 milioni, compensandola con la partita positiva dei 500 milioni per ottenere un quadro più stabile. L'Atac non avrebbe portato i libri in tribunale. Nel bilancio comunale sarebbe stato scritto un credito di 300 milioni, certo inferiore ma più credibile di quello di 500 milioni che sarà rinviato alla fine degli anni venti e rimborsato completamente solo verso il 2050, peraltro con l'incertezza denunciata dagli alti dirigenti comunali.

La separazione del debito dal servizio è ancora una misura valida e anzi potrebbe presentarsi come l'unica soluzione in caso di insuccesso della procedura concordataria. Si tratta di prendere atto realisticamente che l'Atac non è in grado di ripagare l'azionista. Di conseguenza il credito comunale di 300 milioni diventa inesigibile e si trasforma in un debito del bilancio capitolino da affrontare con la necessaria gradualità e gli strumenti adeguati. Potrebbe essere collocato nella gestione commissariale degli oneri finanziari del Comune, istituita dieci anni fa con il famoso "accordo della pajata" tra Tremonti, Bossi e Alemanno. Il "buco" di bilancio allora non c'era, ma il polverone mediatico servì a coprire la decisione più scellerata: furono cancellati gli investimenti dello Stato per la Capitale e in cambio il Comune ottenne la possibilità di gonfiare la spesa corrente. Si allentarono i cordoni della borsa per consentire le assunzioni di Parentopoli all'Atac e furono quasi annullati gli investimenti per gli acquisti degli autobus.

A quei tempi il Commissariato per il debito comunale non serviva, ma oggi potrebbe essere utilizzato per riparare i danni successivi: consentirebbe di gestire il debito del trasporto con adeguata professionalità, al riparo dei pignoramenti, fuori dall'emergenza e con maggiori margini di manovra verso le banche, dalle quali dipende in gran parte l'esito finale. Si dovrebbe istituire, con una piccola modifica normativa, una sezione speciale del commissariamento al fine di attribuire gli oneri solo al Comune, evitando ulteriori sussidi statali.
Ho proposto nell'ottobre del 2017 l'assunzione del debito da parte del Comune ed è apparsa azzardata a molti osservatori. Eppure è pienamente giustificata dal punto di vista empirico e teorico. In pratica è già accaduto in passato che la gestione commissariale assumesse la voce passiva dei 200 milioni verso Atac. In seguito la somma fu riportata in capo al bilancio corrente e da qui scaricata sulle spalle dell'Atac con la decisione del Ragioniere di cui si è già detto.

Per chiarire il punto di vista teorico occorre ritornare sull'ipotesi che sorregge il concordato. Si promette di saldare i creditori facendo conto sull'utile di servizio che sarebbe determinato dall'attuazione del piano industriale. Ma un'azienda finanziata dal contratto di servizio, come non dovrebbe avere un debito, non dovrebbe neppure presentare un utile di gestione oltre una ragionevole remunerazione del capitale. Infatti, un surplus molto alto, quanto sarebbe necessario per ripianare il debito, segnalerebbe una stima in eccesso dei costi di produzione che dovrebbe essere corretta con la revisione a ribasso del corrispettivo del contratto. Se ciò non avvenisse il Comune deciderebbe, senza saperlo o senza dichiararlo, di finanziare indirettamente il ripiano del debito consentendo un eccessivo utile di gestione all'azienda. Quindi, già l'attuale concordato è basato, senza alcuna trasparenza, su una presa in carico del debito Atac da parte del Comune. E allora sarebbe meglio realizzare lo stesso obiettivo dichiarandolo esplicitamente, assumendo il ripiano nella gestione commissariale e uscendo dalla procedura fallimentare.

In tal modo si porterebbe a soluzione il debito pregresso, togliendo dalle spalle dell'azienda un peso insostenibile e creando quindi le condizioni più favorevoli per la radicale riforma della gestione del servizio. Solo così si potrebbe evitare la formazione di nuovo debito e innalzare l'offerta di trasporto per i cittadini.

SUPERARE IL MONOPOLIO


Il piano industriale che accompagna il concordato è inadeguato negli obiettivi e negli strumenti. Contiene ricette già annunciate in passato e quasi mai messe in pratica. Propone soluzioni largamente al di sotto della grave crisi strutturale. Nell'ultimo decennio l'azienda ha smarrito i principi elementari di organizzazione dei processi, ha accumulato un ritardo tecnologico, ha dequalificato il management e ha sperperato ciò che rimaneva della sua credibilità interna ed esterna. Un'azienda in questo condizioni non si riprende con provvedimenti di ordinaria amministrazione. È necessario mettere in discussione l'assetto produttivo e regolativo. Il superamento del monopolio è l'unica via d'uscita dalla crisi, non solo perché lo impone la legge, ma innanzitutto per l'irreversibile degrado della struttura aziendale.

Al contrario, la giunta ha scelto di conservare il monopolio utilizzando come alibi proprio il concordato, presentandolo come uno scenario che renderebbe impossibili le gare. È falso, non solo non esistono impedimenti giuridici, ma secondo il Tribunale fallimentare il difetto più grave della proposta di concordato consiste proprio nel non aver preso in esame "le misure regolatorie dell'Autorità di Regolazione dei Trasporti in tema di trasferimento dei beni strumentali al nuovo gestore".
L'apertura al mercato con l'esternalizzazione della produzione dovrebbe essere la priorità del piano industriale. Sarebbe l'unico provvedimento capace di innalzare la produttività e di rendere credibile il risanamento anche verso i creditori. Già l’annuncio della concorrenza darebbe una scossa di efficienza, come al contrario la scelta dell’in house quindici anni fa ha innescato il degrado del servizio e del bilancio. Fu percepita dai peggiori vizi aziendali come una sorta di “tana libera tutti”. Consentì il ritorno in grande stile del comando politico e sindacale sui dirigenti aziendali. Tornò la vecchia logica: le risorse sono consumate prima di tutto nel consociativismo degli interessi interni, e solo ciò che avanza rimane disponibile per il servizio ai cittadini. È l'esito di un monopolio che di pubblico ha ormai solo il nome e anzi mette in sofferenza la vita quotidiana della città.

L'alibi del concordato per la proroga del monopolio è servito a sancire il patto con i sindacati, i quali forse solo dopo si sono accorti di essere caduti nella trappola. Per la prima volta nella storia aziendale hanno accettato di entrare in una procedura fallimentare che potrebbe avere esiti disastrosi, non hanno denunciato con forza la responsabilità della giunta nel buco di bilancio e non hanno chiesto neppure che il Comune si facesse carico della sofferenza finanziaria dell'azienda, ottenendo in cambio solo il rinvio di due anni delle gare. Il patto è stato implicitamente recepito nell'ordine del giorno approvato dal Consiglio Comunale il 7 settembre del 2017, secondo il quale il concordato sarebbe volto a "mantenere, unitamente al servizio di TPL da parte di Atac, la connessa salvaguardia dei livelli occupazionali". Ma non è un grande risultato per i lavoratori, poiché, come vedremo più avanti, la concorrenza in qualsiasi forma garantisce la continuità della forza lavoro. Con le gare invece finisce il consociativismo sindacale nella gestione delle funzioni che dovrebbero essere nella responsabilità dei quadri direttivi. Tutto ciò è stato non solo dannoso per l'azienda - poiché ha assecondato l'abdicazione della dirigenza - ma ha distorto le stesse organizzazioni sindacali che si sono burocratizzate e frammentate in una decina di sigle per suddividere il potere consociativo. La concorrenza può aiutare a creare normali relazioni industriali sulla base del contratto nazionale di lavoro. Sarà una formidabile occasione di rinnovamento per il sindacato: potrà difendere i diritti dei lavoratori senza far conto sull'ignavia dei dirigenti, anzi dovrà controllare il management e proporre piattaforme rivendicative coerenti con la qualità del servizio di trasporto.

La sindaca Raggi ha stipulato un'intesa elettorale con i corporativismi aziendali e oggi mantiene la promessa di conservare lo status quo. Dopo essersi presentata in discontinuità con le classi politiche precedenti ne perpetua le politiche sbagliate. Per giustificarsi inventa inesistenti problemi relativi alla gestione delle gare: ha sostenuto che comporterebbero l'aumento delle tariffe, ma è falso, come sanno bene i cittadini che utilizzano il titolo di viaggio Metrebus non solo sui mezzi Atac ma anche sugli autobus già oggi gestiti da privati nella rete periferica; ha dichiarato che ci vorrebbe troppo tempo, circa 4-5 anni, ma i suoi uffici stanno già elaborando i capitolati per la gara sulla rete periferica la cui concessione scade a giugno 2018.
Con questo bando si chiede ai privati una produzione di servizio di 40 milioni di Km, superiore ai 27 milioni di Km attualmente gestiti da Roma Tpl. C'è quindi un consistente aumento di offerta di 13 milioni di Km che non riguarderà solo l'attuale rete periferica, ma sarà probabilmente impegnato su altre linee attualmente gestite dall'Atac. Se fosse così sarebbe un'ottima decisione, proprio come auspicavo nel primo paragrafo: se il monopolista non è in grado di produrre la quantità fissata dal contratto di servizio, è necessario ricorrere a un altro produttore che integri l'offerta. Ma ciò significa che la giunta toglie all'Atac una parte della concessione per metterla sul mercato, proprio mentre dichiara solennemente di voler mantenere il monopolio. È una clamorosa contraddizione politica: si rifiuta a parole la concorrenza ma poi viene attuata di soppiatto, senza alcuna trasparenza.
La complessità del problema richiederebbe invece un approccio rigoroso e trasparente. La prima decisione da prendere è il superamento del monopolio dell’Atac. Non è in discussione il se ma il come. Procedere alle gare è una scelta quasi obbligata dalle leggi vigenti, se non in diritto almeno in via di fatto, per le ragioni suddette. Come vengono attuate invece è dirimente per ottenere risultati positivi o negativi. Sono possibili due scenari: con la liberalizzazione diminuiscono i costi e migliora il servizio, invece con la privatizzazione si rischia di peggiorare sia l'offerta per i cittadini sia il peso sul bilancio comunale. Esaminiamo entrambi gli scenari nei paragrafi seguenti.



SÌ ALLA LIBERALIZZAZIONE


La storia del trasporto in Italia dimostra una tendenza costante dei produttori a imporre i propri interessi prima e sopra quelli dei cittadini. I monopoli hanno curato le esigenze corporative aziendali più del servizio pubblico. Anche nel linguaggio della policy community - la retorica manageriale, i discorsi politici, i documenti normativi e perfino gran parte della letteratura scientifica - l'ottica aziendale prevale su quella degli utenti.
Soprattutto a Roma la regolazione del trasporto ha tradito le motivazioni originarie della municipalizzazione. Dal punto di vista formale dovrebbe essere il Comune a prendere le decisioni e l'azienda dovrebbe semplicemente attuarle. Nella realtà però accade esattamente il contrario. Nell'ultimo decennio il carrozzone Atac ha imposto in via di fatto, spesso senza una chiara decisione formale dell'amministrazione, una serie di scelte negative per la città: offerta quasi sempre inferiore al livello necessario; degrado dell'integrazione tariffaria a causa dei litigi tra le burocrazie delle diverse aziende pubbliche; debiti gestionali e poi pretesa di impadronirsi degli utili con il concordato; mancanza di investimenti essenziali e ordinari per l'esercizio; ritardo tecnologico nell'infomobility e inadeguatezza del controllo satellitare che non fornisce informazioni attendibili agli utenti; fallimenti gestionali nella diversificazione delle linee - a orario, Express - e nella biforcazione nella metro B; revisioni della rete per assecondare la minore produzione di servizio, come descritto più avanti.

È tempo di riconoscere le conseguenze inaccettabili di questo assetto aziendale. L'enorme dimensione produttiva di oltre diecimila dipendenti, la più grande industria dell'Italia centrale, costituisce una forza di condizionamento delle decisioni pubbliche. Il servizio del trasporto deve tornare pienamente sotto il governo dell'amministrazione pubblica che risponde ai cittadini. Le attuali regole formali non sono sufficienti: per rafforzare la sovranità del Comune deve diminuire il potere reale dell'azienda. E ciò si può ottenere solo con nuovo sistema regolativo: da un lato occorre alleggerire l'azienda pubblica dal peso dell'attività industriale; dall'altro lato l'Amministrazione deve dotarsi di professionalità e di uffici capaci di svolgere effettivamente le competenze regolative. Soprattutto la politica deve smetterla di immischiarsi nella gestione e si deve dedicare alla programmazione degli obiettivi e delle risorse.

Per superare il monopolio in senso reale e non solo formale occorre separare due momenti fondamentali del trasporto pubblico: la produzione e il servizio.
La produzione è l'attività industriale che organizza la guida e la manutenzione dei mezzi. Il servizio è l'insieme delle strutture e delle funzioni che rendono possibile la produzione e la tramutano in offerta di trasporto per i cittadini.

La liberalizzazione consiste nel sottoporre a concorrenza la produzione del trasporto, tenendo saldamente in mano pubblica la gestione del servizio. Ciascuno è chiamato a fare bene il proprio mestiere: i privati per vincere le gare devono aumentare l'efficienza industriale; il Comune si assume la responsabilità di decidere sulla qualità e sulla quantità del trasporto, liberandosi dai condizionamenti dell'azienda monopolista.
L'attuazione pratica della liberalizzazione comporta la soluzione di complessi problemi sia nell'organizzazione della produzione sia nella gestione del servizio.

1. La produzione. Il risultato della concorrenza nella produzione dipende in gran parte dalla capacità di organizzare procedure di gara efficaci, rigorose e realmente contendibili, in maniera che vinca il migliore. Nei bandi devono essere garantite effettive condizioni di parità di trattamento per tutti gli operatori. Per la definizione dei capitolati si può prendere come base di riferimento proprio quel contratto di servizio che l'azienda pubblica per tanti anni non ha saputo rispettare, valutando tutte le innovazioni che le imprese private sono in grado di apportare. Esse avranno il compito di migliorare le procedure gestionali, l’organizzazione del lavoro e la logistica.
Dovranno comunque assumere i lavoratori attualmente impegnati nelle funzioni produttive, alle stesse condizioni salariali, e potranno invece sostituire i dirigenti. Si tratta quindi di gare che hanno per oggetto prevalentemente il management. La causa prima della crisi, infatti, è da ricercarsi nella cronica incapacità dei dirigenti, con alcune meritorie eccezioni, nel mettere in pratica i più elementari principi di gestione aziendale e innovazione tecnologica. Le cause della dequalificazione vengono da lontano e si sono accentuate negli ultimi tempi: i dirigenti non rispondono a una razionalità aziendale, ma sono prima di tutto fedeli ai padrini politici e sindacali che influiscono sulle loro carriere; e così incitano tutti i dipendenti a fare altrettanto.

Quando penso alla grave carenza di direzione, mi stupisco sempre nel vedere che gli autobus nonostante tutto percorrono le strade romane. Non è un'azienda, è una sorta di "associazione di autisti" che producono il servizio in base alle loro doti di autogoverno. Se ne può avere conferma empirica osservando le ampie oscillazioni di risultato in funzione dello stato d'animo degli operatori: la forte motivazione che scatta in occasione dei grandi eventi politici o religiosi produce miracoli nella gestione del servizio, come ad esempio si vide per la canonizzazione degli ultimi papi. Al contrario, il servizio degrada quando un malessere nelle relazioni sindacali annulla quell'autogestione che è l'unica risorsa produttiva. Non c'è una qualità "normale" per mancanza di una rigorosa organizzazione industriale. Ma se, nell'eccesso opposto, si dovesse intervenire con un irrigidimento tecnocratico, l'esito finale potrebbe essere inferiore a quello ottenuto per via spontanea. Da tutto ciò viene un monito ai nuovi gestori: potranno fare meglio di oggi solo se sapranno motivare gli autisti e tutti i dipendenti in una nuova organizzazione del lavoro.

Alle gare si dovrebbe accompagnare un'incisiva operazione di risanamento. Per effetto di Parentopoli l'azienda si è riempita di figure amministrative, restringendo i margini di assunzione degli autisti. Il capitolato delle gare può limitarsi a registrare la situazione caricando il privato di personale non necessario e ovviamente pagandone il prezzo nella base d'asta dell'appalto. Sarebbe meglio invece affrontare una complessa operazione di riconversione professionale di questo personale per ricollocarlo nell'amministrazione comunale che presenta in diversi settori evidenti carenze di organico. In questo modo il Comune migliorerebbe la propria organizzazione del lavoro e pagherebbe un prezzo inferiore nell'appalto, trasferendo al privato solo il personale strettamente necessario alla produzione.
I mezzi di trasporto - autobus, tram e treni - dovrebbero essere di proprietà pubblica. Verrebbero conferiti al privato che in tal modo non sarebbe costretto a sostenere complessi investimenti con i conseguenti oneri di ammortamento. Ciò consentirebbe di accorciare la durata della concessione. Le imprese verrebbero sottoposte frequentemente alle gare, migliorando la concorrenzialità del sistema.

Nonostante la diffusa tendenza a creare carrozzoni non ci sono rilevanti economie di scala. Una dimensione ottimale della produzione è il bacino corrispondente al deposito, che si può considerare come la "fabbrica" del trasporto. A Roma non è ben calibrata la copertura territoriale degli attuali depositi, alcuni troppo grandi, altri troppo piccoli o distanti dal bacino di servizio. Andrebbe programmato un investimento per migliorare la logistica e ridurre i percorsi a vuoto degli autobus a inizio turno. Comunque, seguendo il dimensionamento per deposito si dovrebbero organizzare le gare su una decina di lotti per il settore della gomma, da attuare gradualmente in due-tre anni e non con un bando unico. Altri lotti dovrebbero poi riguardare la produzione sul ferro, uno per ciascuna infrastruttura, la metro A, B e C, la rete tram e le ferrovie concesse, in accordo con la Regione che ne è proprietaria. Si dovrebbe investire sulla estensione alle linee A e B della guida automatica che sulla linea C ha già dato ottimi risultati di efficienza, regolarità e sicurezza.

Si avrebbero complessivamente circa una quindicina di lotti con le dimensioni analoghe a quelle di un capoluogo di provincia. Ovviamente si dovrebbe consentire ai migliori operatori di poter vincere le gare su più lotti al fine di massimizzare la qualità del sistema. Andrebbe però stabilito un limite massimo - ad esempio 3-4 lotti - per evitare che si creino nuove tendenze monopolistiche. Complessivamente sulla piazza romana ci sarebbero quindi 4-5 grandi operatori a gestione multipla dei lotti. La frammentazione dei contratti serve a rafforzare il controllo del pubblico e a inibire il potere di ricatto di privati che potrebbero minacciare l'interruzione di servizio per ottenere condizioni più favorevoli. Le autorità comunali potrebbero facilmente rescindere il contratto ad un operatore inadempiente, ampliando ad un altro l'affidamento fino all'espletamento della nuova gara. Divide et impera è una vecchia massima che si adatta molto bene alla politica di liberalizzazione.

La produzione funziona meglio nella piccola scala, mentre il servizio deve essere integrato a larga scala, non solo la città ma la regione, non solo gli autobus, ma tutte le altre modalità, i tram, le metro e le ferrovie. Questa regola antitetica diventa chiara solo nella liberalizzazione che separa produzione e servizio. Al contrario, il vecchio monopolio oscura la differenza, utilizzando l'integrazione del servizio come alibi per giustificare i carrozzoni inefficienti della produzione. Ricorre spesso nel dibattito la proposta di unificazione di Atac con il Cotral e Ferrovie dello Stato. Sarebbe un mostro burocratico privo di qualsiasi economia di scala, ma viene giustificato applicando impropriamente alla produzione il principio di integrazione che invece vale solo per il servizio.

Per concludere sul tema della produzione, l'assetto proposto assegna ai privati un compito molto vincolato, come fornitori della trazione dei mezzi e della manutenzione. Questo prodotto poi viene assemblato dal soggetto pubblico in un servizio per i cittadini. I privati quindi non hanno alcun rapporto con gli utenti e non possono influire sui caratteri pubblici del servizio, dalle linee alle tariffe. È un'interpretazione radicale della modalità contrattuale chiamata gross-cost. Ha dato ottimi risultati, come dimostrano recenti studi, nei paesi che ne hanno fatto ampio uso - Germania e Svezia - portando a significativi miglioramenti di modal split a favore del mezzo pubblico. Si può obiettare, però, che in tal modo si restringe troppo lo spirito di iniziativa degli imprenditori. C'è il rischio di una scarsa varianza dei parametri di concorrenza e potrebbe venire la tentazione di ampliare i margini comprimendo i diritti del lavoro. Sono obiezioni fondate e bisogna tenerne conto con un'attenta definizione dei capitolati, descrivendo al meglio le variabili di qualità della produzione e ponendo vincoli rigorosi sul rispetto dei contratti di lavoro.

Come sempre in una policy complessa si tratta di scegliere le priorità. A mio avviso, bisogna accettare, e mitigare, questo difetto della restrizione dell'iniziativa imprenditoriale perché è molto più importante salvaguardare l'autonomia delle decisioni di interesse collettivo. La sfida vera della liberalizzazione riguarda il potere di regolazione. Per assegnare un vero primato al pubblico, bisogna contenere i privati in un ruolo meramente produttivo.

2. Il servizio. Non basta però contenere i privati, occorre ripensare radicalmente la forma e il ruolo dell'azienda pubblica. La liberalizzazione presuppone un assetto di governo della mobilità che imponga effettivamente la priorità dell'offerta ai cittadini rispetto ai condizionamenti delle strutture operative.
Bisogna scomporre l'azienda sulla linea di separazione tra servizio e produzione. Ecco il cuore della riforma: l'Atac deve trasformarsi in una moderna agenzia di governo del sistema. Si dovrà liberare della produzione, che peraltro gestisce male ormai da quasi un trentennio, per diventare una tecnostruttura specializzata nella regolazione e nell'integrazione del trasporto. Sarà un'azienda più piccola, circa un decimo del personale attuale, ma più intelligente e autorevole nel governo dei processi. Porterà ancora il nome antico Atac proprio per sottolineare la continuità con la funzione pubblica del servizio, ma in effetti sarà un soggetto completamente diverso dall'attuale.
Prima di tutto dovrà ampliare la scala di intervento diventando l'agenzia della nuova Città metropolitana per supportare anche i comuni dell'hinterland e per regolare tutte le reti - urbane, extraurbane e ferroviarie - dell'area vasta. Si dovrà concordare con la Pisana una cooperazione con l'agenzia regionale al fine di realizzare un'integrazione comprensiva anche dei servizi del Cotral e di Trenitalia.

La sfida più difficile consiste nella riconversione professionale della nuova Atac come regolatore e non più come produttore. Comporta un cambiamento profondo nell'organizzazione, nelle competenze e perfino nelle mentalità. Occorre recuperare anche specializzazioni ormai disperse, degradate o addirittura dimenticate. Vediamo in sintesi le principali innovazioni che sono necessarie.

Prima di tutto si devono ricondurre all'interno della nuova Atac tutte le attuali agenzie comunali: l'Agenzia comunale della Mobilità che si occupa della pianificazione e dei servizi per la mobilità privata e pubblica, in particolare delle linee, le frequenze, gli orari e gli standard di servizio; Roma Metropolitane specializzata nella progettazione e nell'appalto delle infrastrutture su ferro, in particolare la metro C. Non si capisce in base a quale razionalità il Comune debba possedere tre diverse strutture che si occupano di mobilità. Oltretutto, l'Amministrazione oggi gestisce molto male i tre contratti di servizio: ha portato sull'orlo del fallimento non solo Atac ma anche Roma Metropolitane e ha messo in sofferenza finanziaria anche l'altra agenzia. L'unificazione semplificherebbe le procedure, diminuirebbe i costi fissi delle strutture e ridurrebbe i consigli di amministrazione. Nascerebbe una potente struttura di ingegneria capace di progettare tutti gli elementi della mobilità, dai piani di traffico, alle linee degli autobus fino alle metropolitane.

Occorre poi ricostituire la competenza ingegneristica dei mezzi di trasporto. È andato disperso un sapere che in passato ha raggiunto livelli elevati, dalla progettazione di veicoli tranviari come lo Stanga o il brevetto della giostra Urbinati che consentiva lo snodo tra due casse tranviarie. Oggi è impensabile progettare in casa mezzi di trasporto, ma l'azienda pubblica deve avere una competenza specifica non inferiore a quella dei fornitori, se non vuole subire le loro scelte. In questo assetto l'Atac sarebbe in Italia la più grande stazione appaltante locale di autobus, tram e treni. Dovrebbe dotarsi di una forte divisione ingegneristica per gestire a proprio vantaggio gli acquisti e controllare la manutenzione effettuata dai produttori del servizio.

Anche i depositi devono rimanere di proprietà pubblica per essere conferiti ai vincitori delle gare, come raccomanda anche l'Autorità di regolazione dei trasporti. È una condizione essenziale per assicurare un'ampia concorrenzialità. Se al contrario ogni privato che partecipa ai bandi dovesse dotarsi di propri depositi, non semplici da reperire nella conurbazione romana, si avrebbe una pesante restrizione dell'accesso alle gare. Ciò significa che la nuova Atac dovrà dotarsi anche di un settore altamente professionalizzato per la gestione dei beni di proprietà e per lo sviluppo e l'ammodernamento degli impianti.
C'è poi il sistema tariffario, deliberato dagli organi comunali e gestito dall'Atac con gravi carenze: cronica incapacità di colpire l'evasione, ritardo tecnologico nelle modalità di pagamento e nella logistica; ostilità verso l'integrazione tariffaria del Metrebus, fino al punto che il piano industriale propone di tornare ai titoli di viaggio esclusivamente urbani, costringendo i pendolari a pagare di più per prendere diversi mezzi.
In questo settore la nuova Atac deve cambiare mentalità e metodi. Le tariffe devono essere gestite insieme a una moderna capacità di comunicazione. È incredibile che l'azienda non sia ancora capace di gestire adeguatamente il controllo satellitare dopo quasi un decennio dall'installazione. Questa intollerabile deficienza impedisce al Comune di verificare effettivamente la corrispondenza del livello della produzione con le previsioni del contratto e fornisce informazioni errate o incomplete agli utenti che consultano le apposite app.

Non solo comunicazione, ci vuole anche l'ascolto dei cittadini, mediante vecchi e nuovi strumenti, dai social network, ai forum degli utenti, al confronto nei municipi sul controllo e sulla pianificazione del servizio. Dal coinvolgimento possono venire miglioramenti puntuali e una riconquistata credibilità. I romani se ne intendono di trasporti: sugli autobus si ascoltano discussioni molto competenti sulle linee, le frequenze e perfino i turni di lavoro. Nelle città europee i passeggeri leggono il giornale senza preoccuparsi dei turni. Certo, la nostra competenza è cresciuta come difesa dalle inefficienze, forse ne faremmo volentieri a meno, ma potrebbe essere volta in positivo come contributo al miglioramento dei servizi.
Una moderna agenzia non può occuparsi solo della rete degli autobus, ma deve promuovere tutti i servizi innovativi che vanno sviluppandosi con le nuove tecnologie; car e bike-sharing, car-pooling, mobility manager, taxi mutiplo ecc. Si tratta di iniziative gestite da operatori privati e non devono essere irrigidite dalla burocrazia, però l'agenzia può svolgere una funzione preziosa di supporto, di collaborazione e di integrazione con il servizio pubblico.

Infine, la nuova Atac dovrà acquisire una profonda competenza dei contratti con i privati produttori del servizio. In essa convergono diverse professionalità: capacità ingegneristica nel controllo degli standard del servizio e della manutenzione delle infrastrutture, attitudine regolativa nella definizione dei parametri di competitività, supporto legale nel contenzioso contrattuale, monitoraggio finanziario dei pagamenti e delle risorse. Formalmente il titolare delle gare può essere la nuova Atac oppure il Comune; nel secondo caso l'agenzia svolge il supporto nella gestione delle gare e nel controllo dei contratti comportandosi come un dipartimento comunale.

La gestione di una quindicina di lotti di produzione dalla gomma al ferro richiede una tecnostruttura di altissima efficienza tecnica e giuridica. È bene sapere che tale obiettivo è molto lontano dalla situazione attuale. Occorre formare una competenza che oggi non esiste. Si può imparare molto dagli errori commessi dalla coppia Atac-Comune nella gestione del contratto con Roma TPL, il privato che gestisce da venti anni la rete periferica. Si trascina da tempo un forte contenzioso che nessuno ha avuto la capacità di risolvere, fino a rendere necessaria la mediazione in prefettura. Il Comune si è rifiutato di pagare un addendum del contratto pur riconosciuto dalle sentenze del Tribunale amministrativo. Il privato ha scaricato la difficoltà finanziaria sui lavoratori ritardando il pagamento degli stipendi. Sono cose inaccettabili, esempi da evitare in futuro: la committenza pubblica deve essere severa nel controllo ma corretta nei pagamenti. Il Comune avrebbe dovuto chiedere al privato di costituirsi in una società unitaria, e non in un consorzio di imprese - in alcuni casi molto piccole - che non ha la solidità e la compattezza per gestire l'intero ciclo produttivo. Nonostante questi problemi di relazione pubblico-privato, alcuni risultati operativi sono stati invece positivi.

Se consideriamo nel decennio la perdita di servizio rispetto a livello programmato, un parametro rappresentativo della regolarità e della capacità produttiva, l'Atac si è attestata tra il 6% e il 10% per sprofondare al 15% nel 2017. Roma Tpl ha più che dimezzato la perdita attestandosi sempre sotto il 3%, crollando al 6% nell'annus horribilis. Ciò significa che la confusa gestione contrattuale con il privato può pregiudicare i positivi risultati ottenuti dalla liberalizzazione.
D'altronde, se il Comune è inefficiente non è in grado neppure di far funzionare il monopolio, anzi rischia di portare i libri in tribunale, come si è visto. Nel dibattito su liberalizzazione e monopolio, quindi, non si può usare a favore di una tesi o dell'altra l'inefficienza del Comune, perché in entrambi i casi i risultati positivi verranno solo se migliorerà l'amministrazione pubblica.

Il successo della liberalizzazione non è scontato. Tutto dipende dalla capacità di creare una nuova Atac all'altezza del compito: qualificare il carattere pubblico del servizio e diventare protagonista dell'apertura alla concorrenza. Non è un obiettivo semplice, ma certo è più facile rinnovare un'azienda dieci volte più piccola dell'attuale, è più credibile creare un'agenzia efficiente piuttosto che risanare un colosso produttivo di oltre diecimila persone.

La nuova Atac sarebbe l'occasione per il riscatto della tradizione di servizio e di ingegneria pubblica, certo oggi molto degradata, ma che nel corso del Novecento ha vissuto momenti di grande valore. Il fondatore Giovanni Montemartini, il brillante riformista socialista e il miglior assessore nella storia della città, immaginava l'azienda pubblica come garanzia per i cittadini contro i monopoli finanziari inglesi e belgi che si erano impossessati del servizio a inizio secolo. Poi c'è stata una lunga decadenza fino alla procedura fallimentare. L'azienda può uscire dalla crisi, ma non come era prima, cambiando profondamente il suo assetto. Chiamarsi ancora Atac significa sottolineare l'intenzione di ritrovare il meglio di una lunga storia del servizio pubblico romano.



NO ALLA PRIVATIZZAZIONE


La privatizzazione agisce invece sull'azienda così come è oggi, senza la preventiva separazione tra servizio e produzione. Si apre ai privati la partecipazione al capitale della società per azioni Atac oppure si trasferisce la concessione del servizio a imprese private. Questo approccio, a mio avviso, metterebbe a rischio il trasporto pubblico romano. L'Atac non sarebbe più protagonista del processo, ma diventerebbe oggetto della privatizzazione o vittima di una liquidazione di fatto, secondo le due possibili modalità di gara che vanno per la maggiore.

Con la prima modalità, la gara cosiddetta a "doppio oggetto" si seleziona l'operatore che migliora l’offerta del contratto di servizio e acquista un determinato numero di azioni. Se la procedura riguarda l’azienda nell’attuale assetto - cioè con la commistione tra servizio e produzione - si consente in via di fatto al privato di condizionare l'offerta di trasporto e di modificare a proprio vantaggio la struttura dei costi e dei ricavi. Anche se rimangono in capo al Comune le decisioni regolative, la loro attuazione dipende dalle competenze e dalle strutture operative dell’azienda in parte privatizzata. È molto probabile che ciò consenta al privato di "catturare il regolatore", come è già avvenuto con il monopolista interamente pubblico.
Quando i nuovi azionisti subentrano nelle vecchie aziende pubbliche, quasi mai si dedicano al nocciolo duro dell'organizzazione del lavoro. Si tratta infatti di un'opera faticosa, lunga e di risultato incerto che il privato tende a eludere per ottenere vantaggi immediati e quantificabili. Preferisce conservare l'inefficienza trovando il modo di farla pagare al pubblico. Qualcosa del genere è accaduto anche con i manager avvicendatisi in modo frenetico negli ultimi tempi e spesso impegnati solo su operazioni finanziarie oppure su iniziative mediatiche, piuttosto che nel difficile lavoro di riorganizzazione dei processi produttivi.

L'approccio privatistico è attratto dalla possibilità di gestire il monopolio a proprio vantaggio. Gli azionisti privati tenderanno a risolvere la crisi chiedendo al Comune di alzare le tariffe e tagliare le linee invece di migliorare l'efficienza produttiva. Prima convinceranno i rappresentanti del Comune con i quali collaborano nel consiglio di amministrazione e poi insieme faranno pressioni sul sindaco perché accetti la soluzione a loro più favorevole, che sarà presentata con adeguate campagne mediatiche come la migliore. Il consociativismo interno tra i manager di nomina pubblica e privata preparerà le soluzioni da imporre all'autorità politica. Gli effetti negativi del monopolio privato possono essere più gravi di quelli ben noti del monopolio pubblico.

L'esperienza condotta negli ultimi venti anni ha mostrato che il difetto intrinseco delle società miste è la commistione di interessi tra pubblico e privato. Essa consente alla politica di invadere la sfera tecnico-professionale e agli imprenditori di condizionare l’interesse generale.
Basta constatare, ad esempio, come in Acea i “partner industriali” decidano quasi tutto, pur essendo azionisti di minoranza. E la commistione pubblico-privata rende incomprensibili le decisioni. L’emergenza idrica ha alimentato nell’opinione pubblica il sospetto che gli investimenti sulla manutenzione degli acquedotti siano diminuiti per aumentare i dividendi degli azionisti.

Ovviamente, si può sostenere che in Atac, a differenza dell'Acea, l'azionista privato sarebbe comunque vincolato al contratto di servizio e dovrebbe rivendere le azioni alla scadenza della concessione. Ma in senso contrario, l'azionista Atac potrebbe essere più disinvolto rispetto a quello di Acea che è sottoposto al giudizio di mercato essendo una società collocata in borsa.
La privatizzazione sarebbe meno rischiosa se la gara a doppio oggetto avvenisse a valle della separazione tra servizio e produzione e riguardasse solo il contenitore societario che gestisce l’attività industriale. In tal modo l’operatore economico non avrebbe la possibilità di influire sulle reti e sulle tariffe. Però rimarrebbe la dannosa promiscuità di interessi tra pubblico e privato nella società mista: se il Comune come regolatore dovesse comminare sanzioni per il mancato rispetto del contratto ne pagherebbe le conseguenze come proprietario per la sua quota di azioni, in una sgradevole confusione di ruoli e di interessi.

Il secondo modo di fare le gare ai fini della privatizzazione consiste nel mettere in competizione l'Atac con altre imprese private. È l'approccio più banale e più diffuso, ma anche il più scorretto in via di principio e nel caso romano anche il più dannoso. Si crea infatti un grave conflitto di interessi in capo al Comune che deve scegliere tra l'azienda di cui è azionista e altri soggetti imprenditoriali. Due funzioni pubbliche - la regolazione e la proprietà - entrano in una irresolubile contraddizione. In passato i Comuni hanno spesso risolto il problema scrivendo bandi molto favorevoli alla propria azienda, cioè facendo gare finte. Oggi non sarebbe più possibile perché i capitolati "farlocchi" non potrebbero superare il vaglio dell'Autorità dei trasporti, dell'Autorità per la concorrenza e dell'Autorità anticorruzione.

Se la gara fosse rigorosa, l'Atac probabilmente non sarebbe in grado di vincerla, e di conseguenza verrebbe messa in liquidazione. Al suo posto subentrerebbe un privato che gestirebbe non solo l'attività industriale, ma influirebbe sulle funzioni regolative, come nello scenario precedente della gara a doppio oggetto.
Le due modalità di gara sopra descritte non sono intrinsecamente negative, e anzi possono dare esiti positivi se applicate a valle della separazione tra servizio e produzione. In tal caso però non si tratterebbe più di una privatizzazione ma di una liberalizzazione.
La differenza tra i due approcci è decisiva: nel primo caso il monopolio pubblico rischia di trasformarsi in monopolio privato con effetti negativi per l'interesse pubblico; nel secondo caso, invece, il superamento strutturale del monopolio consente di gestire in modo ottimale sia la produzione mediante la concorrenza sia il servizio con una nuova agenzia pubblica.

Questo era l'obiettivo della scissione societaria che portò alla fine degli anni novanta alla creazione di tre nuove aziende: Trambus e Metro per la produzione del trasporto rispettivamente su gomma e su ferro, e la nuova Atac di circa mille dipendenti impegnati solo nelle attività di regolazione e di gestione degli asset proprietari. Il programma comportava due possibilità attuative: gara a doppio oggetto con vendita del 100% delle azioni di Trambus e Metro, oppure gara tra le due società pubbliche e le imprese private. Con tali soluzioni si sarebbero evitate tutte le criticità di sui si è detto sopra. Nel primo caso, l'azionista privato avrebbe avuto la responsabilità totalitaria delle aziende di produzione, senza commistioni con il pubblico e senza possibilità di influire sulla regolazione. Nel secondo caso, l'insuccesso nelle gare non avrebbe messo in liquidazione il patrimonio pubblico dell'Atac, ma avrebbe comportato la liquidazione solo di Trambus e Metro con il trasferimento di ramo d'azienda al privato e la piena garanzia per i lavoratori. Non a caso questo ambizioso disegno venne concordato anche con le organizzazioni sindacali in un protocollo di intesa sull'intera politica di liberalizzazione del Comune di Roma.

Ciò nonostante, nel 2009 Trambus e Metro furono riunificate con Atac. Fu un segnale chiaro e ben compreso dal sistema consociativo aziendale: era scampato il pericolo della liberalizzazione e si poteva tornare a fare come prima e più di prima. Il ricostituito carrozzone nelle mani di Alemanno ridusse il servizio, peggiorò la produttività per addetto e dissipò le risorse nel disastro di Parentopoli. Non sarebbe potuto accadere se nei primi anni duemila fosse stato attuato il progetto di liberalizzazione.



L'OCCASIONE DEL REFERENDUM


Il 3 giugno si terrà il referendum promosso dai radicali. Non ce ne sarebbe bisogno in una città normale, poiché le gare sono una scelta quasi obbligata. E invece è necessario perché la decisione della sindaca Raggi di conservare il monopolio può essere rimossa solo con una netta vittoria del SÌ. È bene che un ampio schieramento democratico sostenga tale posizione accompagnandola con un progetto di riforma dell'Atac e con una chiara opzione a favore della liberalizzazione e contro la privatizzazione.

La vittoria del NO, invece, manterrebbe la situazione attuale con tutti i rischi e le criticità che possono anche far cadere il castello di carte del concordato. Se si dovesse aprire uno scenario drammatico, la giunta, presa dal panico, sarebbe costretta a svendere l'azienda, senza avere più tempo per separare il servizio dalla produzione. La privatizzazione a seguito di un'emergenza e senza un progetto di riforma è purtroppo ricorrente nella vicenda italiana degli ultimi venti anni. Non è difficile immaginare che molte lobbies oggi lavorino per creare una drammatica emergenza, da cui ottenere maggiori vantaggi. Solo a quel tempo i medici pietosi che finora hanno accarezzato il monopolio si accorgeranno di aver contribuito al disastro dell'azienda che a parole volevano salvare.

Il referendum quindi è l'ultima occasione per migliorare il trasporto romano. E soprattutto è un'opportunità per i cittadini di partecipare alle decisioni sulla questione più importante di Roma. La voce popolare è l'unica risorsa in grado di superare gli sterili conservatorismi che hanno impedito finora la riforma dell'Atac.



LA RIFORMA DELLA RETE


Le gare non sono la panacea di tutti i mali, anzi devono essere accompagnate da un rilancio della politica della mobilità. La concorrenza può risolvere il deficit di efficienza della produzione, ma non si esce dalla crisi strutturale del servizio se non si risolve il problema della rete.
Esso è determinato da due cause, una amministrativa e l'altra urbanistica. La prima dipende dall'ampio confine comunale che, a differenza delle altre città, si estende nell'hinterland ben oltre l'edificato. Gli insediamenti più esterni vengono coperti dal servizio in modalità urbana come le linee centrali, ma dovrebbero essere gestiti con la modalità del trasporto extraurbano. Per fare un esempio, Corcolle è una borgata collocata a 30 km dal Campidoglio e viene servita dall'Atac con linee a passaggio casuale, mentre il vicino comune di Tivoli è servito dal Cotral con passaggi a orario. L'anomalia del confine comporta un'impropria applicazione del trasporto urbano nell'hinterland.

La causa urbanistica ha prodotto una rete molto estesa e costituita da collegamenti a domanda debole in un territorio a bassa densità. È il risultato di un continuo prolungamento di linee che si sono aggiunte alla geometria di rete degli anni cinquanta senza modificarne l'assetto, con l'eccezione di alcuni interventi parziali. La lunga espansione è stata scandita da due salti di scala: il forte potenziamento del servizio negli anni settanta andò a coprire i nuovi insediamenti fino al Gra e comportò il passaggio da due a tre cifre nella numerazione delle linee; l'ulteriore sviluppo oltre il Gra dell'ultimo trentennio ha richiesto l'attivazione di una nuova corona di linee, distinte con uno zero iniziale, in buona parte oggi gestite da privati. In tal modo si è arrivati a produrre circa 300 linee fisse, gestite tutte nello stesso modo, senza alcuna differenza tra il 64 che connette Termini con San Pietro e, ad esempio, la linea 024 che collega il paesino di Cesano a 32 km dal centro di Roma.
Questo disegno di rete determina costi elevati per il Comune e servizi inefficaci per i cittadini. È la conseguenza della disordinata espansione urbanistica che ha consumato una grande estensione territoriale disseminando insediamenti sparsi a bassa densità. Ogni volta che si costruisce un nuovo quartiere isolato nell'Agro romano si aumenta la componente urbanistica del costo del servizio di trasporto.

C'è scarsa consapevolezza di questo peso sempre crescente sul bilancio comunale, ma è il più grave problema strutturale del trasporto nella capitale. Per indicarne una misura basta un semplice confronto tra Roma e Milano. Per servire un territorio molto ampio e poco denso da noi occorre una dotazione di rete - intesa come il numero di km per abitante - del 38% maggiore rispetto alla città ambrosiana. Ma tale sforzo produttivo produce un risultato scarso per i cittadini che ottengono un'offerta di posti per km del 41% più bassa (dati Istat elaborati da Federico Tomassi). Per semplificare si potrebbe dire che le paline sono tante, ma anche per questo vi passano pochi autobus. Cioè, i mezzi vanno dappertutto nel grande territorio comunale, assicurando l'accessibilità anche ai quartieri più isolati e questo è un merito indiscutibile, ma in tal modo riescono a dare ben poco agli utenti in termini di frequenze e di posti disponibili. Sono percentuali impressionanti che dimostrano quanto sia dispendiosa e inefficace la rete pubblica. La sua radicale riforma dovrebbe quindi essere una priorità per la politica comunale.

Ci sono state solo due ristrutturazioni importanti, una in aumento e l'altra in diminuzione di offerta.
La prima fu realizzata alla fine degli anni novanta nel bacino Salario-Nomentano-Oltreaniene e si basava su due innovazioni: a) riserva di spazio urbano a favore degli autobus, non solo corsie preferenziali, ma intere "strade verdi", secondo il modello sperimentato a viale Libia purtroppo smantellato da Alemanno; b) gerarchia di rete con l'introduzione delle linee Express più frequenti e veloci perché effettuano solo le fermate più importanti accorciando i tempi delle lunghe percorrenze. In realtà esse riprendono la modalità di gestione delle linee celeri degli anni trenta. A volte le vere novità sono alle nostre spalle.
Con la ristrutturazione si rafforzò la percorrenza sulle linee portanti verso il centro e si resero più capillari gli spostamenti tra i quartieri, invece di trattare tutte le linee allo stesso modo. La convergenza tra riserva pubblica di strade e gerarchia di rete produsse un forte aumento di offerta e di regolarità nell'intero bacino. Il progetto doveva proseguire sugli altri quadranti urbani ma fu abbandonato dalle successive amministrazioni.

Nel 2014 c'è stata un'altra importante ristrutturazione che, pur con l'intento di ridurre l'offerta, ha ottenuto risultati positivi almeno all'inizio. Le modifiche sono state di ampia portata: 48 linee soppresse, 12 di nuova istituzione e un centinaio modificate o potenziate. L'obiettivo era diminuire il servizio di 7,5 milioni di Km per avvicinarlo alla minore capacità di produzione dell'Atac. Ciò nonostante i passeggeri sono aumentati del 2% per effetto di una migliore corrispondenza della rete rispetto alla struttura urbana. L'anno successivo, però, l'azienda ha ridotto ulteriormente la produzione, bruciando i vantaggi ottenuti e costringendo la giunta a fermare la ristrutturazione. La vicenda insegna molte cose: il ridisegno della rete presenta margini molto ampi di miglioramento del servizio a costi inferiori; se l'operazione è condotta a ribasso per assecondare la minore produzione dell'azienda si finisce per diminuire ulteriormente l'offerta; solo se si libera la produzione dai vincoli del monopolio, si può disegnare un'offerta meno costosa ma più ricca per i cittadini.

Oggi, con le tecnologie dell'infomobilità si può immaginare una riforma di rete più radicale delle precedenti. Si tratta di mettere in discussione non solo il disegno delle linee, ma anche la forma di gestione e perfino il modo di fruizione del servizio. Sono quattro le innovazioni fondamentali.

1. Il punto critico è costituito dalle linee a bassissima domanda che servono gli insediamenti isolati nell'Agro. È la parte più inefficace e inefficiente del servizio, perché costringe gli utenti a tempi di attesa inaccettabili, fino a un’ora, e scarica costi insostenibili sull'azienda. Qui si deve compiere la svolta radicale passando dalle attuali linee rigide a itinerari flessibili con accesso a chiamata da parte degli utenti, come si verifica già nelle esperienze più avanzate in Italia. I cittadini prenotano i propri spostamenti con il cellulare, anche in tempo reale, e l'operatore adegua l'itinerario secondo le richieste pervenute, offrendo un servizio puntuale con mezzi più piccoli e confortevoli. I gestori potrebbero essere tassisti e noleggiatori che si mettono insieme per fornire un servizio collettivo di Taxi “2.0”, sulla base di una convenzione comunale. Ancora meglio potrebbe svilupparsi il nuovo servizio se fosse sostenuto da una riscrittura della normativa di settore, come ho proposto in un apposito disegno di legge. Secondo uno studio del Comune, su questi bacini si abbatterebbero i tempi di attesa e si ridurrebbero i costi di Atac del 75%. I trasporti di questa modalità 2.0 farebbero parte a pieno titolo del servizio pubblico. L’utente pagherebbe normalmente il biglietto o l’abbonamento e gli operatori verrebbero compensati da un sussidio comunale finanziato con una parte del risparmio ottenuto con l'eliminazione delle linee fisse. Si offrirebbe un'opportunità di sviluppo agli operatori Taxi e NCC nella modalità innovativa del taxi collettivo, che potrebbe essere estesa successivamente a tutta la città.

2. Occorre gestire la rete extraurbana secondo le sue regole. I quartieri periferici più esterni devono essere serviti secondo la modalità Cotral, cioè con linee a orario predefinito. In diverse occasioni si è chiesto ad Atac di adottare questa modalità, ma si è sempre rivelata incapace di farlo. Nelle gare si dovrà verificare la capacità dei privati di rispettare gli orari previsti alle paline, utilizzando anche il controllo satellitare per informare l'utenza su eventuali scostamenti.

3. Le linee interquartiere e di adduzione al ferro hanno bisogno di una revisione sulla base della metodologia già sperimentata nel 2014. Si tratta di eliminare molte incongruenze e sovrapposizioni che si sono create nella lunga espansione cumulativa della rete. L'integrazione con le stazioni ferroviarie e delle metro deve essere non solo spaziale ma anche temporale, mediante uno stretto coordinamento negli orari dei treni e degli autobus. Su questa parte intermedia della rete occorre un forte miglioramento dell'informazione all'utenza sui tempi di passaggio dei mezzi. Alla fermata il cittadino deve poter consultare le apposite app per sapere con sicurezza quando arriverà l'autobus.

4. Le linee Express vanno ripristinate e sviluppate. Oggi si è smarrita la differenza e funzionano come tutte le altre linee. Invece devono costituire gli assi portanti della rete con alti livelli di frequenza e di capacità di trasporto. Se funzionano bene i grandi collegamenti centro-periferia tutte le altre linee ne hanno un beneficio di integrazione. Il rafforzamento delle linee Express non solo consente di servire al meglio i flussi principali ma diffonde l'effetto rete su tutto il territorio.

Queste quattro modalità della rete sono purtroppo del tutto estranee all'attuale gestione dell'Atac. Essa si organizza secondo le abitudini e le convenienze interne che conducono inevitabilmente a trattare tutte le linee nello stesso modo. Non solo non è mai riuscita a gestire linee a orario, non ha mai realizzato i servizi a chiamata, ha banalizzato le linee Express, ha esteso la modalità urbana nell'area extra urbana.
Il monopolio non solo produce inefficienza, ma impone modelli di servizio calibrati sugli interessi corporativi e non sulle esigenze collettive. La riforma della rete può essere attuata solo con la liberalizzazione. I bandi di gara definiranno le caratteristiche del servizio che deve essere differenziato a misura della straordinaria complessità territoriale di Roma.
Infine, la ristrutturazione della rete consente una migliore allocazione delle risorse. Nella parte periferica con i servizi a domanda debole e le linee a orario si offre un servizio di gran lunga migliore a costi più bassi. I risparmi possono essere utilizzati per potenziare le linee interquartiere e soprattutto le Express. La rete deve essere riformata non per tagliare, anzi per aumentare l'offerta e per convincere molti romani a lasciare l'automobile.

L'alleggerimento del peso del trasporto sul bilancio comunale, che sarà comunque un problema anche per il futuro, si dovrà ottenere operando sulle altre due inefficienze, quella produttiva e quella infrastrutturale. La riduzione del costo unitario di produzione che scaturisce dalla liberalizzazione deve essere utilizzata per diminuire la spesa corrente del contratto di servizio, creando così margini per aumentare gli investimenti, dagli autobus alla cura del ferro, e quindi migliorare ulteriormente l'efficienza del sistema. In tal modo si inverte il circolo dissipativo dell'inefficienza monopolistica, la quale aumenta la spesa corrente a discapito degli investimenti, creando così nuovo debito per carenza tecnologica, come si è visto nella mancata disponibilità degli autobus negli ultimi anni.

La realizzazione delle metro e dei tram consentirà di eliminare gradualmente almeno alcune linee Express, determinando nuovi risparmi di gestione accompagnati a migliore qualità del servizio. Gli autobus non dovranno più essere utilizzati per le linee portanti, ma solo per gli spostamenti interquartiere e di adduzione al ferro. Solo con la cura del ferro si potrà superare l'anomalia della rete romana troppo dipendente dalla modalità autobus, il mezzo di trasporto più costoso e meno efficace.



IL FERRO SENZA CURA


La cura del ferro, tanto a lungo dimenticata e trascurata, oggi avrebbe le condizioni più favorevoli per il suo rilancio. È merito del ministro Delrio aver operato una svolta rispetto agli anni passati: con lo smantellamento della berlusconiana Legge obiettivo, fonte di malaffare e ritardi dei cantieri, ha ristabilito il primato della progettazione pubblica negli appalti; la costituzione del fondo per le opere su ferro nelle grandi città rilancia la pianificazione dei trasporti; il finanziamento di un programma pluriennale di acquisti di treni, di tram e di autobus consente di ottenere miglioramenti a breve nei servizi urbani. Per Roma è arrivata subito la buona notizia, un grande finanziamento di 425 milioni di euro per la manutenzione e la gestione delle metro A e B. Ora la giunta deve spenderlo rapidamente per eliminare i gravi disagi nelle metropolitane. Le incertezze del concordato già stanno causando ritardi nell'impegno di queste risorse statali.

La conclusione dell'Alta Velocità ha liberato tracce ferroviarie per il trasporto regionale soprattutto nell'area meridionale, i Castelli e la provincia pontina, che è anche la più popolosa. La giunta Zingaretti ha sostenuto un forte miglioramento del servizio mediante l'acquisto dei treni e l'adeguamento del contratto con Trenitalia. Si può fare di più in futuro investendo sul potenziamento tecnologico e sui nodi di scambio delle due direttrici per Cassino e per Formia, che sono state liberate in gran parte dal traffico nazionale. Soprattutto il potenziamento della linea tirrenica consentirebbe di pedonalizzare il Parco dell'Appia antica migliorando l'accessibilità via treno, con un collegamento di dieci minuti da Termini fino alla stazioncina di Torricola da riqualificare all'uopo. Inoltre, la ferrovia potenziata, e migliorata nella connessione con il tessuto urbano di Latina, alleggerirebbe il traffico automobilistico sulla via Pontina spostando sul mezzo pubblico la domanda della parte meridionale della regione. Ciò consentirebbe di impostare un progetto più leggero di riqualificazione della strada, al fine di evitare ulteriori devastazioni ambientali in un territorio delicato e complesso.

È meritoria l'intenzione della giunta di rilanciare gli investimenti sul tram. Anche se non sono ancora chiare le priorità e soprattutto le conseguenze progettuali e operative degli annunci. È molto positivo l'annuncio della diramazione del tram 8 su viale Marconi. L'opera amplierebbe il bacino del miglior tram romano, servirebbe un quadrante molto popoloso e servito oggi in modo inadeguato, migliorerebbe l'integrazione della rete tranviaria con la metro B a San Paolo. Bisogna superare resistenze e difficoltà per l'eliminazione della sosta in superficie a viale Marconi, ma la consultazione già avviata con i cittadini lascia ben sperare. Se la giunta porterà a termine l'intervento otterrà sicuramente un successo nella politica della mobilità.

Desta invece grande sconcerto l'altro annuncio di un nuovo tram da Piazza Vittorio, lungo via Cavour con attestamento a Largo Corrado Ricci davanti ai Fori imperiali. Si prevede poi in futuro, senza uno studio di fattibilità, il prolungamento fino a Piazza Venezia con un viadotto sospeso sopra l'area archeologica. È un progetto inutile, sbagliato, rinunciatario e furbesco per i seguenti motivi:

1. È inutile se si considerano le motivazioni presentate dalla giunta. Non serve a nulla il moncherino tranviario da piazza Vittorio ai Fori, poiché la stessa relazione è già coperta dall'attuale rete tranviaria; infatti, dal Colosseo il tram risale via Labicana e potrebbe svoltare a sinistra verso piazza Vittorio, utilizzando i binari - oggi quasi in disuso - del tratto in salita di via Emanuele Filiberto. L'opera si potrebbe giustificare meglio come collegamento tra il bacino Prenestino e il centro storico. Ma quando sarà realizzata la metro C non ci saranno più autobus su via dei Fori e gli utenti del tram dovranno andare a piedi fino a Piazza Venezia. Sarebbe, invece, molto più efficace l'integrazione a monte della tranvia Prenestina con la linea C nella stazione di Pigneto. Si potrebbe pensare a una riconversione del trenino Centocelle-Termini in una moderna tranvia che confluirebbe in una tratta unica insieme al tram Prenestino verso piazza Vittorio fino alla Stazione. In tal modo si potrebbe liberare dai binari la via Giolitti che andrebbe riqualificata come viale urbano ricco di luoghi culturali antichi e moderni, dal Tempio di Minerva Medica, alla scuola dell'arte della Medaglia, al teatro Ambra Jovinelli.

2. È un'opera sbagliata perché mette in sofferenza la viabilità di bordo della ZTL su via Cavour. C'è una buona regola di ingegneria della mobilità che può essere compresa anche dai non esperti. Quando si chiude una zona centrale bisogna lasciare libero il perimetro perché viene interessato da un aumento dei flussi. Nel caso specifico, la meritoria decisione di Marino di eliminare le automobili da via dei Fori Imperiali ha aumentato i flussi sulla direttrice via Cavour-via Annibaldi. Fu un intervento frettoloso e realizzato solo con la segnaletica, ma si potrebbe migliorare tutta la viabilità del quadrante con piccoli interventi strutturali sulle sedi stradali, a cominciare da via Salvi. Comunque, se in futuro si decidesse - come sarebbe necessario - di accentuare la chiusura della Ztl - ampliando l'orario del divieto e riducendo i permessi - si avrebbe un ulteriore appesantimento di via Cavour. Insomma, questa strada non deve essere ridotta da un impianto tranviario perché è necessaria alla chiusura al traffico di tutta l'area centrale. Oppure l'altra possibilità sarebbe ampliare la Ztl oltre via Cavour fino alla circonvallazione di via Amba Aradam, ma di questo ambizioso progetto non c'è traccia oggi nell'agenda del Comune.

3. È una pianificazione rinunciataria perché tende a vanificare la strategia basata sull'asse tranviario Termini, via Nazionale, San Pietro, via Aurelia.
Quando fu realizzato il tram 8 si pianificò il suo prolungamento su via Nazionale fino a Piazza dei Cinquecento, fino alla connessione con il capolinea delle attuali linee orientali, come un grande passante urbano da Monteverde al Prenestino. Questa pianificazione formalmente non viene cancellata, ma di fatto è sostituita dal nuovo tracciato proposto, senza un confronto analitico tra le due ipotesi. Eppure, per valutare gli effetti di entrambe bastano alcune semplici considerazioni.
Gran parte degli utenti del tram 8, ancora più numerosi con la diramazione a viale Marconi, arrivando a Piazza Venezia vorrebbero proseguire per Termini, come hanno dimostrato tutti gli studi di mobilità ed è facilmente comprensibile dal senso comune. Nella prima ipotesi la connessione con la stazione avviene per la via più breve e diretta di via Nazionale; nella seconda ipotesi invece la linea allungherebbe il tragitto su via Cavour per poi arrivare a piazza Vittorio e dirigersi alla stazione in sovrapposizione con il tratto finale, già al massimo carico, della linea Prenestina. Oppure, sarebbe meglio non passare da Piazza Vittorio e procedere per via Cavour direttamente a Termini, ma questa ipotesi non è considerata dal progetto comunale.
Il tracciato tranviario su via Nazionale consentirebbe di eliminare il più grande flusso di autobus dell'intera città, realizzando un trasporto meno inquinante, con maggiore comfort e regolarità, e costi di gestione inferiori. Nell'ipotesi di via Cavour, invece, non ci sarebbe proprio nulla da sostituire perché oggi non esiste neppure una linea di autobus tra piazza Venezia e piazza Vittorio. Ciò significa che verrebbe usata inutilmente la tecnologia tranviaria, che serve proprio a eliminare gli autobus nelle direttrici di maggiore carico. Sarebbe davvero uno spreco investire su una nuova infrastruttura senza risolvere lo stato di degrado permanente di via Nazionale. Forse ci siamo abituati e non ci rendiamo conto che in nessuna città del mondo l'asse centrale è sovraccaricato da alcune centinaia di autobus al giorno. Invece, si dovrebbe eliminare il traffico pubblico e privato su gomma sull'intero asse da Termini a S. Pietro, creando la condizione strutturale per una vasta pedonalizzazione del Centro Storico. Sarebbe l'occasione per "Rifare l'Ottocento", ripensando l'incerta haussmanizzazione con un nuovo boulevard trampedonale aperto sui vicoli della vecchia Roma.

4. Furbesca è poi l'intenzione di cancellare quaranta anni di dibattito sul "Progetto Fori", facendo finta di niente, come quel tale che scrive su un muro e si allontana fischiettando. Ci sono sempre stati tanti oppositori della grande idea di Petroselli, Cederna, Benevolo, Insolera e La Regina di eliminare lo stradone costruito dal fascismo. Per decenni l'argomento contrario è stato che non si potesse eliminare il traffico automobilistico, perché altrimenti sarebbe venuta l'apocalisse. Come si è detto, il sindaco Marino, il giorno prima di essere defenestrato dal suo partito con le firme dal notaio, prese la decisione di eliminare le automobili dall'intera area archeologica, purtroppo accompagnata dalla infausta demolizione di via Alessandrina. La perdita dell'argomento contrario ha disorientato gli oppositori, che però in futuro potranno aggrapparsi a un nuovo impedimento: lo stradone non si può eliminare perché deve passare il tram di via Cavour.

Non credo sia tanto facile costruire una grande struttura su ferro sospesa in viadotto sopra l'area archeologica, e non pare che siano stati elaborati studi di fattibilità. Probabilmente il tram rimarrà attestato su Largo Corrado Ricci come un moncherino senza destinazione, e il prolungamento a piazza Venezia non sarà mai realizzato, ma funzionerà perfettamente come alibi per impedire in futuro l'eliminazione di via dei Fori.
Questa, invece, renderebbe possibili due affascinanti opere di archeologia urbana: il tratto da Largo Corrado Ricci a via Labicana potrebbe diventare la grande piazza del Colosseo, un luogo di incontro dei cittadini tra loro e con la storia, il centro degli eventi civili, la piazza del mondo; lo smantellamento del tratto verso piazza Venezia consentirebbe di utilizzare gli antichi Fori di Traiano, Augusto e Cesare come le piazze della vita quotidiana della città, connesse a una rete di itinerari pedonali del Centro Storico.

L'ambizioso obiettivo oggi diventa possibile proprio perché è in fase di realizzazione la condizione strutturale prevista dal progetto di Leonardo Benevolo: la metro C.
L'opera è stata portata fuori binario a causa dell'inserimento nella Legge obiettivo, che ha conferito molti poteri ai costruttori privati, indebolendo i controlli pubblici. Le gravi vicende della gestione dell'appalto hanno alimentato il pessimismo. Rassegnarsi a non proseguire la metro significherebbe il più grande regalo alla mala-gestione. Si dimostrerebbe che le opere si possono fare solo male. E invece si devono realizzare bene, come ad esempio si è fatto a Napoli, controllando i costi ed elevando la qualità progettuale. Il vincolo archeologico può diventare un'opportunità, è possibile riportare alla luce reperti preziosi - come si è già realizzato nella stazione di S.Giovanni. Nella stazione di S. Andrea della Valle è possibile rendere visibili i reperti del teatro di Pompeo, uno dei più prestigiosi monumenti antichi. Invece, con le modifiche progettuali apportate ai tempi di Alemanno, si pretendeva di realizzare le stazioni con scavi a cielo aperto che avrebbero devastato lo strato archeologico. Per questo motivo sono poi state dichiarate infattibili, ma sono realizzabili se si torna al progetto originario - come ha ricordato di recente Adriano La Regina - che prevedeva stazioni profonde all'interno delle gallerie.

Anche su questo tema preoccupa la paralisi decisionale della giunta. Dovrebbe per prima cosa avviare la revisione progettuale, correggendo gli errori della gestione Alemanno, e ripartire con un nuovo appalto del tratto del Centro Storico, fino a San Pietro e poi alla Farnesina. Il Ministero ha dichiarato la disponibilità a proseguire l'opera e ha predisposto un finanziamento per la revisione progettuale, non ancora utilizzato dalla giunta a causa delle sue incertezze amministrative. Il tempo stringe: a fine anno la talpa che viene da San Giovanni arriverà al Colosseo e poi, come previsto dal contratto, proseguirà per un breve tratto fermandosi proprio sotto il Foro di Traiano. Se non si prende alcuna decisione la talpa sarà abbandonata in profondità perché sarebbe quasi impossibile e comunque costoso tirarla fuori. Se, invece, si prende la decisione di proseguire la metro a San Pietro è ragionevole portare la talpa a piazza Venezia, prima della conclusione del cantiere.

Incombono due pericoli per il Foro di Traiano: lasciare la talpa sotto le sue fondamenta a causa dell'incapacità decisionale e costruire davanti un viadotto tranviario a causa della pianificazione sbagliata. Invece della cura del ferro si rischia di realizzare il ferro senza cura. Quel luogo è stato teatro di trionfi e di decadenze, di potenza e di distruzione, di splendore e di calamità. Nel succedersi delle diverse vicende, quelle negative non meno di quelle positive hanno contribuito a elaborare il fascino dell'opera storica. Le sciagure del passato - i terremoti, le invasioni e le spoliazioni - avevano pur sempre delle giustificazioni naturali o storiche. Gli errori dei giorni nostri, invece, rischiano di essere privi di senso, senza neppure l'aura tragica dei grandi eventi, ma solo con la mestizia dell'insipienza.

Non possiamo lasciare in eredità alle generazioni successive due grandi impianti di ferro sotto e davanti la maestosa piazza disegnata da Apollodoro di Damasco, il più grande architetto del suo tempo.

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